Nel partecipare alla campagna di sostegno alla candidatura di Umberto Ambrosoli alla Presidenza della mia Regione, sono stati invitato alla presentazione di un libro ” La nostra Europa” scritto da Edgar Morin e da Mauro Ceruti di cui mi onoro di essere amico. Si tratta di un libro significativo e che aiuta a farsi una idea puntuale di cosa è oggi l’Europa e di quale sia la sua vocazione. Su questo testo ho scritto una recensione .
LA NOSTRA EUROPA Di Edgar Morin e Mauro Ceruti
APPUNTI per la presentazione
PREMESSA
Il libro ,che la passione intellettuale, civile e morale di Edgard Morin e di Mauro Ceruti, ha messo nelle nostre mani e offerto alla nostra intelligenza perché s’arricchisca, è molto appassionante e sicuramente utile al dibattito che è aperto in questa campagna elettorale in Lombardia, dove la Lega e il candidato del Centro Destra alla Presidenza della Regione stanno diffondendo un’idea negativa sull’Europa. Dopo aver contribuito a incrinare i riferimenti all’unità nazionale, ora si tenta di spostare il gioco destrutturante sulla dimensione europea. Forse si spera che con questo si possano recuperare alcuni consensi, evitare di dire il perché una legislatura regionale è finita anzitempo e di fare il bilancio sul come si è governato, ma tutto questo si configura, ancora una volta, come uno scarico di responsabilità che in ogni caso può fare male ai lombardi e agli italiani.
Da qui la necessità che i democratici di ogni colore che credono nella prospettiva europea sostengano la candidatura di Umberto Ambrosoli, andando oltre il loro posizionamento politico.
Personalmente, da cattolico democratico che si rifà al pensiero europeista di De Gasperi, Schumann. Adenauder, che si è confrontato con il pensiero laico europeista di Altiero Spinelli e che ha sempre ritenuto il manifesto di Ventotene un punto di riferimento, non posso che sentirmi coinvolto.
Non ho condiviso la scelta del Presidente Monti di sostenere la candidatura di Albertini , persona che in questi anni non ha mai preso le distanze dal blocco di potere che ha dominato la Lombardia. Ritengo questa una candidatura sterile e che possa solo avvantaggiare Maroni. L’appoggio ad Albertini è una delle ragioni, fra le tante altre, che ha prodotto il determinarsi della mia uscita dall’Udc.
Il LIBRO
Il Libro di Edgar Morin e di Mauro Ceruti è un contributo importante alla discussione, all’approfondimento delle questioni e delle dinamiche che attraversano l’Europa e del significato che potrebbe assumere la costituzione di una sovranità continentale come potrebbe essere quella degli Stati Uniti D’Europa, non solo per noi ma per i nostri figli e nipoti.
Il testo c’introduce a visione complessa dei problemi e della realtà e parte da un’affermazione molto chiara: dall’Europa è partita, con la conquista dell’America e la circumnavigazione del globo, l’era planetaria. Mi ha stupito che non si sia detto, come si usa normalmente, con la “scoperta dell’America”, ma che con la “conquista dell’America” si è determinata l’occidentalizzazione e la mondializzazione. L’uso del termine “conquista” non mi sembra casuale, perché dice che al fondo della mondializzazione c’è comunque un fatto violento, su questa indicazione dovremmo riflettere con molta attenzione e cercare di vedere come l’epoca della colonizzazione sia rimasta ancora dentro il nostro subconscio culturale e sociale.
L’EUROPA SI E’ RISTRETTA
Dopo secoli di espansione, l’Europa si è ristretta: non è più il centro del mondo e ha ormai assunto una dimensione di periferia, si è provincializzata rispetto ai grandi processi che interessano l’epoca globale, anche quando bombarda la Libia o interviene militarmente in Mali, non fa altro che confermare questa provincializzazione.
Avere consapevolezza di questa contrazione ci dovrebbe spingere a vedere come superare la vecchia e ottocentesca idea di nazione e non certo per fare le macro regioni come propone Maroni, ma per recuperare l’Europa a un destino planetario. Per raggiungere quest’obiettivo occorre che diventi una metanazione e che sia pertanto messa nella condizione di recuperare, in maniera nuova, quell’Universale di cui la sua cultura ha definito l’idea e che, a mio modesto parere, si concentra sulla dignità dell’uomo, per come esso è.
Diventare una provincia nella globalizzazione non è un limite ma un’opportunità. Per questo vanno superate tutte le tentazioni rispetto alla propensione alla “grandeur”, al nazionalismo, alle piccole patrie.
L’UNO E IL MOLTEPLICE
E’ chiaro che ci sono fattori che possono aiutarci a essere una provincia diversa e propositiva. Gli autori ci dicono che l’Europa non ha un centro unico e che a secondo dei periodi storici i suoi punti di orientamento mutano. Le trasformazioni sono favorite dall’esistenza di frontiere penetrabili, a grandezza variabile, flessibili e fluide che consentono il permanere di una capacità di penetrazione e di contrazione.
Inoltre, gli autori ci fanno osservare che il Vecchio Continente ha una dimensione culturale che è nello stesso tempo una e molteplice. Mi sembra di poter dire che tutto il libro anche se in modo articolato si gioca su questa duplicità, su questa relazione tra l’uno e il molteplice.
Siamo stati abituati a pensare queste due condizioni in conflitto, mentre, non senza traumi, ci hanno abituato a dialogare. Ogni tentativo di riduzione a un “unicum” ha provocato dei drammi umani, sociali e politici profondi. Che cosa sono stati gli imperialismi e i totalitarismi se non il tentativo di ridurre il molteplice? Cosi gli europei hanno finito per scannarsi, per costruire i campi di sterminio, creare al gulag, generare genocidi. Ho letto recentemente che tra l’agosto del 1914 e il maggio 1945 tra guerre, deportazioni, carestie, assassini ideologici, razziali hanno causato la morte di circa settanta milioni di persone. Possiamo noi europei dimenticare o obliare quanto è avvenuto nei Balcani e la pulizia etnica che si è praticata in quei luoghi? Abbiamo rimosso quel conflitto perché costringe le nostre coscienze a ripensarsi, eppure quell’area per secoli si era convissuta con l’Islam.
Mantenere la relazione tra l’uno e il molteplice diventa essenziale per costruire il futuro e non ripetere gli errori del passato.
Il rifiuto di condensare sull’uno le nostre identità, mantenendo un rapporto dialogico con le radici e con ciò che esse producono nelle diverse situazioni, è un processo che dovrebbe sostenere la possibilità del convivere e il senso e il significato del nostro essere civili. Questo è il compito che si deve assegnare all’Europa di domani. Sono convinto, e mi sembra sia ben messo in luce dal testo, che se viviamo in modo dialogico e non dialettico le metamorfosi dell’Europa è possibile costruire veramente un qualche cosa di nuovo.
Il nostro tempo è stato per troppo tempo dominato da un pensiero dialettico che facendo confliggere i contrari sperava di giungere a una sintesi, ma i risultati sono stati negativi. Proprio per questo mi hanno sempre sconcertato le campagne elettorali giocate sulla contrapposizione amico/nemico.
La vera necessità è intraprendere una nuova via in cui il dialogo tra le differenze generi le convergenze e i comuni arricchimenti, questo è l’obiettivo che ci dobbiamo dare se vogliamo che il tutto diventi più civile.
Solo se ci incamminiamo su queste strade, l’europa sarà in grado di essere un punto unificante del mondo. Nei secoli scorsi l’ha fatto tramite la violenza dell’imperialismo, del colonialismo, delle guerre (guerre europee diventate mondiali), oggi lo può fare in modo nuovo e diverso attraverso una cultura profondamente dialogica in grado di superare il conflitto tra creazione e distruzione che è, purtroppo, ancora presente.
I NOSTRI DRAMMI e NUOVI PARADIGMI
Se siamo stati, come dicono Edgar Morin e Mauro Ceruti, il continente delle guerre, delle intolleranze, delle contese religiose, delle streghe e degli eretici bruciati sui roghi, possiamo oggi, facendo memoria della barbarie che ci ha coinvolto, essere qualche cosa di nuovo, di veramente nuovo. Non credo che ci salveremo chiudendoci, come vorrebbe fare la Lega Nord, nei ristretti e indefiniti confini Padani cercando, magari, un’impossibile identità etnica.
I lombardi possono rivendicare tutto meno che un’identità etnica. Nel mio DNA fisico, culturale, sociale e nei reperti storici che popolano il nostro territorio, ci sono tracce celtiche, romane, longobarde, franche, gotiche, spagnole, tedesche e la nostra cultura e il nostro ethos è grande perché legati a quella italiana e intersecate con quelle europee.
Potremmo definirci un crogiuolo di umanità e pertanto aperti al mondo e alla diversità rappresentato dall’altro, che con il suo apparire mi arricchisce.
Dobbiamo fare uno sforzo e recuperare la tensione costruttiva e rigeneratrice che ci ha aiutato nella ricostruzione dell’Italia post-bellica e post-fascista e che è stata la base di quel nuovo paradigma europeo basato sull’inclusione e non sull’esclusione. Anche oggi abbiamo bisogno di definire come allora un progetto più che un territorio, lasciamo a chi a poca storia e ristrettezza di visione di continuare a delimitare i territori, a volere escludere più che includere, a respingere più che accogliere.
MONETA UNICA COME SCONFINAMENTO, E COME SEGNO
Con un atto di coraggio in questi anni ci siamo proiettati in un oltre le frontiere e abbiamo definito una moneta unica.
La moneta contiene oltre al valore intrinseco elementi simbolici che non possiamo demonizzare: il denaro è un segno di sovranità, è un modo per misurare, è un modo per scambiare e che questa impronta valga in Italia, in Francia, in Spagna, in Germania e in tanti altri paesi europei non è un elemento da sottovalutare perché alla fine costringe le persone a usare gli stessi equivalenti. L’unità d’Italia, ricordiamo, fu resa possibile anche dalla adozione della moneta unica; mentre ancora esistevano i piemontesi come centro politico dominante, nello scambio, nel commercio, nelle transazioni c’era la lira.
Forse, ed è un dubbio che circola nella mia mente, l’introduzione della moneta unica avrebbe avuto bisogno di un percorso di assunzione che tenesse conto dei differenziali di sviluppo che esistevano tra i paesi , non averne tenuto conto ha sicuramente, soprattutto con l’arrivo del ciclone della crisi , penalizzato i paesi deboli rispetto a quelli più forti. Ma questo non si corregge uscendo dall’euro, ma cercando quelle misure fiscali e di gestione monetaria che possono compensare i differenziali e dare una sorta di omogeneità tra i paesi. Mi sembra che la gestione della Bce messa in campo da Draghi si muova in questa direzione, così pure le altre misure adottate dai governi, anche se occorre fare di più. Un’Europa che ha cura di sé non può assistere indifferente all’immiserirsi della Grecia.
NUOVA FASE, NUOVA METAMORFOSI
Con la fine del socialismo reale e la caduta dei regimi comunisti, si è aperta una nuova fase per l’Europa e forse assistiamo a una nuova metamorfosi che non è priva di contraddizioni. Anche su questo cambiamento ha finito per dominare l’oblio e la voglia di dimenticare, mentre andava e va messa in atto una lettura critica sul come un regime totalitario introduce nella società corpi e pensieri negativi. Quanto si tentano delle cesure, quando si pretende di creare l’uomo nuovo normalmente si creano spazi dove il negativo e il male si radica nella società e nelle persone e a quel punto non basta il cambio di regime, serve un sogno nuovo.
Per costruire una nuova prospettiva occorre tenere conto di tutti i fenomeni negativi che hanno agito e che sotterraneamente agiscono in Europa avendo il coraggio dell’analisi genealogica, se non li capiremo non li sradicheremo e i nazionalismi, il razzismo, la xenofobia e i localismi appariranno sul nostro orizzonte in modo minaccioso.
Nel libro si afferma che L’Europa ha bisogno di una nuova metamorfosi e che questa possa avvenire solo se si punta certamente sugli Stati uniti d’Europa, sul federalismo europeo.
In questi anni abbiamo perso tempo e speso risorse parlando di Federalismo italiano, alla fine abbiamo finito per massacrare i tratti profondi del federalismo reale che non si basava sulle regioni o sulle macroregioni, ma sul Comune. L’Italia, non dimentichiamolo, è un paese comunale, municipale e parrocchiale per eccellenza ed è su questo che occorreva e occorrerà lavorare. Più che una repubblica che ti federi le regioni si deve puntare a una repubblica federale municipale e comunale.
IL FEDERALISMO EUROPEO
Il vero federalismo verso il quale ci si deve mobilitare culturalmente, socialmente e politicamente è quello europeo. Da qui può discendere un progetto politico che punti a rafforzare il modello di economia sociale di mercato attraverso un nuovo patto sociale che sia in grado di costruire coesione sociale e, aggiungo, fraternità e accoglienza.
Viviamo in questi anni il dramma dell’assenza di lavoro segnato dalla disoccupazione e in particolare da quella giovanile e dal crescere degli sfiduciati. Questo è il problema centrale da affrontare. Non si tratta di scrivere nuove regole per il mercato del lavoro che non aggiungono un posto in più, ma di mettere in campo nuove politiche di sviluppo che affrontino i nodi e le deficienze strutturali della nostra economia: infrastrutture materiali e immateriali, istruzioni, università e ricerche, nuove politiche industriali in grado di far evolvere il nostro paradigma tecnologico, crescita della produttività, sostegno al reddito familiare e credo sia arrivati il tempo che più che parlare di salario minimo garantito si riprenda il tema della piena occupazione e, perché no, di una nuova ripartizione del lavoro che la pervasività delle nuove tecnologie nei processi produttivi renderà necessaria. Tutto questo si può fare solo con l’Europa.
UN NEW DEAL
L’idea di un New Deal europeo andrebbe perseguita con determinazione e chiarezza. In questa direzione l’Italia dovrebbe essere protagonista e far pesare la sua dimensione geografica per creare i presupposti di una reale apertura al Mediterraneo. Non ha più senso affidarsi alla forza delle armi, quello che sta accadendo nei paesi mediterranei dell’Africa dovrebbe far riflettere sui ritardi europei, sulla nostra difficoltà a cogliere ciò che matura di buono nelle società che ci circondano, che come noi si affacciano sul comune mare.
Assenti politicamente e cooperativamente, legati a un’idea di forza che non ci consente di essere protagonisti di quell’incontro di civiltà che ci favorirebbe sul piano umano, su quello della sicurezza e su quello economico, si pensa che ci possano essere più utili i cacciabombardieri della cooperazione economica e sociale.
IL MEDITERRANEO
Non ci si rende ancora compiutamente conto che oggi la dialettica tra nord e sud del mondo sta sostituendo quella tra est e ovest e che il mediterraneo è tornato, a essere centrale, e che in quest’area che nel prossimo futuro si giocherà la possibilità della pace e di un nuovo sviluppo.
In nuove metamorfosi siamo obbligati a ripensare il ruolo che assegniamo alla tecnica, se è quello, come sta avvenendo oggi, di dominio e di comando o se si piega alla necessità dello sviluppo umano. Non si tratta più solo, come ci ha insegnato la «Populorum, progressio», di Paolo VI, di ragionare sulla distribuzione mondiale della ricchezza pensando solo al denaro, ma di come ripartire la nuova ricchezza che deriva dalla potenzialità della tecnica solo così si potrà concretamente contribuire al crescere della ricchezza e alla libertà di tutti.
Nuove sfide si aprono innanzi a noi europei che siamo chiamati a vivere quella che il libro definisce come “ l’età del ferro dell’era planetaria” e che normalmente chiamiamo globalizzazione. Il terreno è sempre quello che si richiamava all’inizio è cioè del rapporto tra l’uno e il molteplice. La globalizzazione può essere un’opportunità per un’espansione e un riconoscimento della molteplicità e della convivenza.
Questa prospettiva richiede un ripensamento critico dell’attuale modello economico e lo chiede prima che esso s’implementi ovunque. Non sono contro il capitalismo, ma non posso credere che esso sia l’unico modo di fare economia, di produrre e di generare ricchezza e consumo. Anche per i sistemi economici vale il criterio dell’uno e del molteplice. Sono convinto che a fianco del capitalismo possano esistere forme di economia civile in cui quello che conta non è l’accumulazione di denaro e potere, ma la produzione di beni utili e di relazioni sociali significative.
Difendere l’idea di stato sociale che è maturata e che si è implementata in Europa, non è essere conservatori, ma avere un’idea umana dello sviluppo e della crescita e difenderla in Europa significa mantenere un punto di riferimento chiaro per lo sviluppo umano nel mondo.
Nel prossimo futuro il confronto principale sul terreno dello sviluppo sarà tra l’economia politica di stampo anglosassone e l’economia civile di matrice italiana ed europea.
CRISI DI VALORI E DI VISION
Man mano i nostri pensieri avanza nella riflessione sull’Europa, ci rendiamo conto di come non siamo solo di fronte alla più grave crisi economica che abbia colpito il mondo industrializzato (forse più grave e profonda di quella del 1929), ma anche a una crisi di civiltà, di valori e di credenze. Ogni giorno che passa, vediamo crescere un sentimento sociale che unisce incertezza e sfiducia: nella politica, nella democrazia, nelle istituzioni civili e religiose.
Sembra che si sia è perso il senso e il significato da dare ai nostri interrogativi e vediamo il crescere di un timore verso un presente che sembra segnato da una mancanza di visioni che coinvolge tutto il nostro sapere, conoscere, credere. L’eccessiva specializzazione e separazione dei saperi ci ha resi incapaci di dare un senso comune alle cose, alla nostra esistenza. Abbiamo paura a vivere la complessità. Questo è il nostro problema e più la realtà, com’è giusto, si complessifica più tendiamo a ritirarci nelle semplificazioni che ci distolgono dal conoscere il mondo in cui viviamo e pertanto a essere capaci di politica.
In questo senso pensare l’Europa ci aiuta a problematicizzare l’insieme dei fattori che compongono la realtà: l’università, il pensiero, la ragione, la relazione con la natura e con l’universo, la scienza e a mettere sotto critica l’umanesimo che abbiamo conosciuto per aprire spazio a un umanesimo più universale e molteplice.
LA CENTRALITA’ DEL VIVERE E DEL MORIRE
Ci troviamo a fare i conti, forse per la prima volta nella storia umana, con la centralità dei problemi esistenziali e le questioni del nascere e del morire ci appiano sotto una luce diversa. La vita assume un valore diverso da quello che ha avuto nel passato, mentre per un lungo periodo era stata affidata alla casualità, oggi è posta nelle nostre mani.
La genetica, la medicina, la biotecnica, gli armamenti nucleari diffusi ci dicono che essa, per tanti motivi, potrebbe anche scomparire dal pianeta per mano nostra.
L’apocalisse non è più affidata agli eventi naturali ma alle possibilità dell’uomo. La responsabilità degli umani si è dunque ampliata a dismisura e chiede una sensibilità politica molto più alta del passato. L’unico problema è che forse non siamo consapevoli di quanto oggi grava sulle nostre spalle: la responsabilità per la vita umana, per tutti i viventi e per la sopravvivenza della terra.
ABBIAMO UN DESTINO COMUNE
Riscoprire che l’uomo ha un destino comune e che il mio non è separabile dal tuo è l’atto politico cui dedicarci. La terra è la vera e unica patria da difendere, tutelare, arricchire. Questa direzione l’Europa e la sua unità sono uno degli elementi decisivi per resistere alle barbarie, alle aggressioni alla democrazia, al rapinamento delle risorse naturali che impoveriscono la patria comune degli uomini.
E hanno ragione gli autori nel invitarci a non dimenticare la storia, a non obliare le barbarie che hanno attraversato l’Europa e a metterci sulla strada del pentimento e della richiesta di perdono, solo chi si pente e chiede perdono è in grado di aprire strade nuove.
Il nostro impegno per un’Europa unita e federale si deve collocare in un orizzonte planetario in cui la dignità della persona e la sua libertà siano gli unici criteri guida.
Interessante. Interessante e molto ottimista. Io sono molto pessimista sia per quanto riguarda l’Europa che per ciò che concerne l’Africa.
L’Europa è l’origine di tutti i mali. Il centro delle disgrazie del mondo occidentale è Bruxelles. Penso anche che la netta maggioranza degli italiani non sopportino i tedeschi, nè tanto meno gli olandesi. L’integrazione è impossibile e sarà impossibile, amenochè ia forzata, cioè non democratica.
Per quanto rguarda l’Africa, l’unica fortuna è il Mediterraneo che ci separa sennò gli islamici ci avrebbero sottomessi da un bel pò.
Per venirne fuori l’unica sarebbe fare un Piano per l’Africa. Se ci fossero i soldi.
Ambrosoli deve vincere a tutti i costi. I centristi devono spingerlo con forza. La Lombardia è determinante.
… e adesso con calma inizio a leggere l’articolo che sarà, ne sono certo, molto interessante.