PREMESSA
Seguirò il consiglio del mio compagno di banco, l’on. Tassone, cercherò di essere sincero fino in fondo.
C’è una cosa che mi preoccupa, la dico come premessa e poi non la ripeto più, è l’entusiasmo che rilevo qui. Perché quando si cambia c’è sempre un tasso di sofferenza di cui bisognerebbe tener conto, non ci sono cambiamenti senza sofferenza non vorrei che il nostro entusiasmo fosse un po’ formale.
Io ritengo questo un incontro che potrà risultare importante, se veramente saprà segnare una svolta non solo nei nostri discorsi, nelle nostre analisi e nelle nostre proposte, ma soprattutto nei comportamenti di ognuno di noi.
Questo è il problema che abbiamo: quanto noi siamo disponibili a cambiare. Non gli altri! Perché la disponibilità a vedere gli altri a cambiare è sempre larga. Il problema è quanto siamo noi disponibili a cambiare, è questo che vorrei capire in termini concreti e precisi.
Dal 2008 a oggi abbiamo fatto insieme dei percorsi, affrontato delle sfide, tenuto aperta una possibilità. Ma questo è avvenuto – e ce lo dobbiamo dire – più a livello nazionale che a livello territoriale, questa è la verità. I processi di cambiamento, di omologazione sono avvenuti più a livello nazionale che a livello territoriale e questo è un problema. Non è stato facile nemmeno a livello nazionale ma c’è stata una volontà, un’onestà, una voglia di cambiare e questo per uno come me che ha più la predisposizione alla critica è stata una bellissima esperienza, di cui do atto a Casini, Cesa, Adornato, De Mita e Onofrio.
Durante l’ultima campagna elettorale in Lombardia, ho potuto costatare che pochi sapevano che cosa era la Costituente di Centro, qualcuno non sapeva neanche se esisteva e che si continuava a pensare all’Udc di prima del 2008. Ed io credo che questo atteggiamento ci ha impedito di presentarci come una novità nel panorama politico, ma ci ha fatto percepire come una continuità, inoltre mentre dicevamo che si doveva sgretolare il bipartitismo all’italiana, si continuava a pensare con chi allearci che di fatto è l’accettazione di ciò che si dichiarava di negare, è la contraddizione che ci siamo portati dentro questa campagna elettorale. Non possiamo far finta che non ci sono state contraddizioni, pertanto se ci sono state, bisogna correggerle.
Abbiamo avuto alcuni atteggiamenti contradditori, molti dettati dalla necessità perché in politica c’è anche la necessità e altri perché non è avvenuta in molti di noi una mutazione della coscienza e soprattutto una non assunzione profonda e convinta del progetto cui volevamo essere portatori.
Possiamo cambiare i nomi, i simboli, definirci in un modo o nell’altro ma se non cambia la percezione di ciò che noi siamo, è inutile cambiare i simboli, è inutile cambiare i nomi. Se non andiamo via da Todi dicendo a noi stessi per le responsabilità che abbiamo che siamo una cosa nuova, possiamo cambiare tutti i simboli che vogliamo. Ma il problema sono i contenuti e ciò che vogliamo essere. Io voglio capire i contenuti, voglio capire cosa si fa.
Se non costruiamo delle visioni, delle metafore, dei nostri modi di essere, saremo costretti a inseguire quelli che altri ci propongono.
Ecco perché bisogna incominciare a sognare, tornare a sognare, certo un sogno ad occhi aperti. Un sogno che ha dentro di se alcuni connotati utopici ma che è in grado di guardare la realtà per poterla cambiare, e noi parliamo della realtà che ci riguarda, non quella degli altri.
Ognuno di noi, sia individualmente sia collettivamente ha una storia, ma non è l’unica. Il problema che abbiamo è come le nostre differenze possiamo aiutarci a costruire una storia comune. Perché questo è il problema che abbiamo: costruire una storia comune da oggi in avanti.
Non si tratta allora di dire se siamo d’accordo, lo abbiamo detto anche lo scorso anno, poi siamo tornati a casa e abbiamo continuato come prima, perché cosi è stato, abbiamo anche litigato con Cesa per i coordinamenti, chi mettiamo chi non mettiamo, metto il mio, metto il tuo… poi alla fine non è successo nulla. Non possiamo questa volta ripetere lo stesso schema perché se lo ripetiamo, ci condanniamo. E’ una responsabilità per ognuno di noi. Qualcuno può pensare che a fare un po’ il gattopardo “tutto cambia ma nulla cambia” ci si può salvare. Non ci si salva. Perché non possiamo e non ci salveremo se staremo nelle nostre nicchie, chiusi nelle nostre sicurezze.
Ora i tempi sono terminati. O siamo in grado di avere tempi nuovi e di essere protagonisti di un tempo nuovo, oppure ci rassegniamo. Le elezioni regionali sono state un segnale da non sottovalutare, non siamo andati male ma abbiamo avuto, o almeno io ho avuto, la sensazione, anche con un po’ di sofferenza, che se non cambiamo non riusciremo ad andare oltre quello che siamo e che pertanto non saremo una minoranza nel panorama politico, ma una minorità. Una minoranza ha capacità creativa, una minoranza ambisce a diventare una maggioranza, una minorità si ferma lì e muore o sopravvive. Siamo arrivati a questo punto lo vogliamo o no, i dati sono lì a dimostrarlo. Ci siamo salvati, non siamo usciti male ma il rischio è che quello diventi il nostro modo di essere. Non ci possiamo rassegnare a questo, sarebbe pericolosissimo, non lo dico per me, lo dico per noi. Dobbiamo cominciare a dire chi siamo e che cosa vogliamo fare in modo chiaro e senza ambiguità.
Faccio degli esempi molto concreti, durante la campagna elettorale ho incontrato le associazioni del mondo cattolico milanese e lombardo, che sono un po’ diverse nella cultura dal modo di pensare di altri, lo dice uno che gira l’Italia, perché c’è dietro una storia perché hanno una sensibilità sociale di un certo tipo e sono – parlo di Milano e della Lombardia – alla ricerca di una proposta politica. Però ancora una volta, in parte, sono stati fermi sulla soglia, perché volevamo misurare le nostre coerenze, le nostre idealità e la nostra volontà di cambiare. Ma se a questi incontri non diamo una continuità, non ripetiamo le parole che abbiamo detto, non ci presentiamo con volti e proposte nuove, anche questa esigenza non sarà colta. Perché noi abbiamo suscitato volenti o nolenti o anche strumentalmente delle attenzioni che se non tendiamo con onestà di soddisfare ci si ritorceranno contro.
Fare un partito aperto, come ha detto Adornato, non significa dentro tutti in modo indiscriminato, ma creare la possibilità perché tutti si possa entrare, far vedere nella nostra proposta il luogo dove esprimere la vocazione alla politica, e una volta entrati non essere messi in un angolo perché io ho più numeri di te. Questa è la sfida vera che abbiamo di fronte ecco perché questo è il momento della verità. Dobbiamo dirci, lo stiamo facendo, come la pensiamo, anche a costo di essere tra di noi sgradevoli.
La relazione di Adornato l’ho assunta non come una conclusione, ma come una traccia per avviare un discorso nuovo, un percorso, per ragionare, per avere un punto di riferimento ma deve essere sottoposto alla nostra verifica, al nostro coraggio.
Ci sono punti che vanno precisati e approfonditi con molta chiarezza:
- Il concetto di nazione
- Che cosa significa partito cristiano e liberale.
- Che cosa vuol dire la modernizzazione per noi.
- Quale forma partito?
IL CONCETTO DI NAZIONE
Stiamo insistendo molto sull’idea di Nazione. Ma ho avvertito un qualche cosa di romantico e un poco distante dalla situazione attuale, credo sia importante scavare dentro. So benissimo chi è morto sulle Alpi ma non basta più, non bastano nemmeno i 500000 alpini che sono stati a Bergamo.
Solitamente le persone sperimentano un legame affettivo con la terra in cui sono nate, in cui vivono, con il dialetto che parlano. E’ chiaro che i livelli di identificazione territoriale influenzano la costruzione della propria identità sociale e culturale. Le identità sono dinamiche, mutano, cambiano non sono ferme perché non è fermo il mondo.
Sono però convinto che a partire dagli anni 80 del secolo scorso si sia prodotto un forte processo di cambiamento in quello che poteva essere definito come identità nazionale.
Non sono solo le distanze economiche tra nord e sud che si sono ampliate, ma si sono alimentate all’interno di una rappresentanza non più unitaria della frattura nazionale. Questo è il tema, basta venire a parlare al bar del mio paese.
Sempre più, soprattutto a nord, è crescente l’idea che i divari vanno affrontati con criteri locali, territorialmente distinti e che solo certe questioni possono essere gestite in modo unitario, ma solo per un periodo di tempo breve. Questa è la cultura predominante in tutti i luoghi che formano il Nord.
Le differenze territoriali non riguardano più solo l’economia e il sociale, ma anche il sistema dei partiti, il sindacato – lo dico per esperienza non è uguale il sindacato del nord con quello del sud, sono due sindacati poi stanno insieme ma sono due sindacati nel modo di essere, nel modo di fare e nel modo di pensare – la stessa Chiesa non è uguale. Noi dobbiamo prendere atto che questo è avvenuto, perché se no l’idea di Nazione non la ricostruiamo. Non è uguale nemmeno il modello burocratico che vi si esercita.
Quando Formigoni dice datemi la scuole e la sanità da gestire, noi reagiamo, giustamente reagiamo, ma lui esprime quello che una larga parte della gente delle mie parti sente e percepisce, ne devo prendere atto, e ne prendo atto anche guardando i risultati elettorali. Non credo che oggi esista un’idea di Nazione condivisa e questo ha ricadute di cui bisogna avere consapevolezza nel ricostruire l’idea di Nazione. Va ricostruita oserei dire rifondata l’idea di Nazione, quella che abbiamo ereditato non c’è più, la nuova deve tenere conto delle differenze che si sono determinate.
Si tratta, dal mio punto di vista, di abbandonare la dicotomia Nord Sud che ci ha sempre accompagnato e che alla fine è servita a penalizzare il mezzogiorno. Noi dobbiamo capire che cosa è successo negli ultimi 80 anni.
La globalizzazione non è solo una questione dell’economia, incide nei modi di essere e di pensare e determina un diverso rapporto i tra territori, non è più solo questione di rapporti interni alla Nazione, ma riguarda i rapporti con l’Europa e il mondo, al di là dei rapporti con il resto dell’Italia.
Il Nord è così, la mia gente quando pensa all’Italia non so se arriva fino in Sicilia. Gli imprenditori del Nord vivono in stretto collegamento con la Lombardia, con l’Europa, e con il mondo. Io capisco che è antipatico dire queste cose e che forse la mia analisi può anche essere sbagliata, ma sento il dovere di farla.
La Lega non è forte perché è radicata nel territorio, ma perché coglie un sentire. Non è che le riunioni della Lega siano affollate di persone. Il problema è che la Lega coglie questo tipo di sentire. C’è un sentire che è diffuso, che si sente differente, che cerca altri sbocchi. Provate a venire a Bergamo, città di 120.000 abitanti, con un aeroporto che è collegato a tutto il mondo, dove il lunedì mattina l’imprenditore bergamasco o il commercialista bergamasco non vanno a Roma, vanno verso altre parti del mondo, Cina, Inghilterra, Paesi dell’Est, America… perché il suo rapporto è diventato quello. Questo non è senza conseguenze perché tutta una società ha questo tipo di riferimento. La Lega ha percepito questo sentire, poi lo interpreta a modo suo, ma allora significa che anche noi non è che dobbiamo rincorrere la Lega ma dobbiamo prendere atto di questo sentire.
Se vogliamo parlare di Nazione, di come ricostruire una identità nazionale occorre ancora una volta partire dal Nord. D’altronde non può che essere così, perché così è nata la storia unitaria d’Italia. Non è contrapposizione al Sud, ma segnare un punto di snodo della questione nazionale. Riusciremo ad essere una rappresentanza nazionale se vinceremo una partita al Nord. Questa è la realtà per come il Nord sta cambiando, per come il Nord sta dentro i processi della globalizzazione.
Ci si deve rendere conto che la questione del Nord non è altro che la questione di un ambiente che si distingue dal territorio, un ambiente complessivo di pensieri di modi di essere, di relazioni, di reti che ha questo sbocco nodale del rapporto del nostro Paese con l’Europa e il mondo. Che chiede presenze nuove e nuovi atti politici, nuove forme istituzionali, se no la tentazione della piccola patria aumenta.
Abbiamo una responsabilità che non è quella di contrapporre Nord e Sud. Ho presieduto dal suo sorgere e per un po’ di tempo la Fondazione per il Sud, per cui non ho una visione ostile, sto cercando di capire che cosa avviene e credo che le elezioni regionali mi abbiano aiutato a mostrare quello che sta avvenendo nella realtà e a cercare i mezzi e le forme per ricongiungere le cose in termini nuovi. Del resto è nella storia d’Italia. L’unità d’Italia parte a Nord, il tricolore è stato inventato dalla repubblica Cisalpina.
Teniamo presente che i veri cambiamenti di questa Nazione avvengono lì, anche quelli politici, dove nasce Forza Italia? Dove nasce la Lega? Allora significa che c’è qualcosa di diverso che dobbiamo cercare di interpretare. Se il nostro è un disegno unitario di ricostruire un’idea nuova di Nazione, idea che certamente ci obbliga a capire a riorganizzare e a pensare forse un neo-federalismo aperto, non quello che ci viene propinato, un neo-federalismo aggiornato, costituito per realizzare i rapporti tra territori e regioni, tra reti lunghe e corte, tra città e campagna, tra regioni e comuni, e con l’ambito sociale; occorre una nuova stabilità a livello nazionale ed europeo che ci obblighi a riscoprire il nuovo senso della nazione.
Il tentativo che stiamo facendo coglie alcune cose. Se vogliamo costruire un partito nuovo, dobbiamo essere capaci di elaborare una visione di modernità e di nuova unità nazionale, di un progetto Nord. Dobbiamo veramente costruire il partito delle autonomie, dobbiamo costruire un partito non federalista ma federato, in grado di mettere insieme le differenze.
L’altra questione che voglio affrontare è se siamo ancora convinti che esista il popolo. Il popolo è un’unità che ha un ethos comune, che ha un modo di stare insieme, il popolo era una realtà formata da ceti e da classi, è ancora così, oppure siamo nell’era di una moltitudine fatta di monadi individuali.
Come ridare coesione a questa moltitudine che non è più popolo, come connettere le monadi? Abbiamo il dovere di reinventare alcune possibilità. Abbiamo bisogno di ricomporre questa moltitudine per ricreare una dimensione di popolo perché un popolo ha un ethos, la moltitudine è anonima, relativista.
L’ethos popolare nasceva certamente dalla presenza del cristianesimo nella nostra società, ma dobbiamo tenere presente che se il cristianesimo era la base culturale di tutti, adesso siamo entrati in una fase in cui la cristianità è finita, la cristianità intesa come sistema come modalità come forma. Siamo entrati in una fase nuova per i cristiani e del loro modo di essere e di organizzarsi. Allora capisco alcune diffidenze che vengono dal mondo cattolico, alcune preoccupazioni, una certa ritrosia della Chiesa a mettersi dentro l’agone politico. Anche qui bisogna essere veramente attenti.
IL PARTITO NUOVO
Nell’ascoltare la relazione di Adornato ho rilevato alcune cose che vorrei approfondire:
1) Lui parla di partito cristiano e liberale. Ho qualche preoccupazione sull’accentuazione del liberale che nella sua relazione c’è. Io credo che per noi sarebbe più utile in questa fase tentare di essere il partito della democrazia sociale.
Teniamo conto che la recente enciclica del Papa, la Caritas in veritate, introduce una serie di nuovi concetti che modificano e va oltre l’impianto liberale classico.
Provenendo dall’esperienza del cattolicesimo sociale, vorrei che questa corrente di pensiero si mantenga dentro il nuovo partito.
2) Aperto, certo, ma qualche attenzione ci vuole: mettere insieme repubblicani, liberali e altri va bene, ma dobbiamo evitare di fare una margherita di centro. Non possiamo essere il partito dei moderati o dei riformisti, ma della modernità e dei riformatori.
3) Vorrei che fosse un partito popolare e a forte tensione sociale, anche nel nome.
4) Dobbiamo discutere e decidere come stiamo nel PPE. Noi ci stiamo in modo diverso del PDL e delle forze conservatrici. Ci sono nel PPE correnti di pensiero che sono più vicine al nostro modo di pensare.
5) Essere il partito dei giovani nel vero senso del termine. Questo richiede una disponibilità a:
a) Cedere il passo.
b)Creare una nuova classe dirigente. Ricordo a tutti voi che quando Pastore volle fare il “sindacato nuovo” la prima cosa che fece fu la scuola dei quadri a Firenze.
6) Un partito che affronta la sfida educativa come elemento centrale per ridare unità al paese.
Dovrà essere un soggetto politico:
- aperto, democratico e popolare; con un ampia e profonda gestione collegiale a tutti i livelli;
- lontano dalle involuzioni populiste e oligarchiche che negli ultimi lustri hanno sempre più privato gli elettori della possibilità di partecipare direttamente a scegliere i propri rappresentanti al Parlamento;
- aperto a tutti quelli che hanno passione civile, tensione sociale, spirito di servizio della legalità;
- capace di selezionare una nuova classe dirigente sulla base di valori e di comportamenti;
- aperto soprattutto alla realtà giovanile e femminile, creando le condizioni perché possano essere protagoniste del loro futuro;
- attento e interprete alla nuova dimensione multiculturale che l’immigrazione ha prodotto nel nostro Paese.
Una bella relazione animata da sincerità e tensione morale. Concordo con il richiamo fondamentale alla svolta dei comportamenti da intendersi, credo, non in senso moralistico ma politico: occorre liberarsi dalla mentalità frazionistica e correntizia della prima repubblica e dalla mentalità opportunistica (esaltazione del valore aggiunto) della seconda repubblica. La prima cosa che la politica deve fare è quella di trasmettere soprattutto ai giovani ed alle donne valori, storie e tradizioni positive come quelle della laicità (della quale lo scudocrociato è un simbolo esaustivo), della famiglia e della nazione. Notevole l’ammonizione a non fare la “Margherita dei moderati”. Sarei invece più cauto sul bipartitismo/bipolarismo (voto utile). Se è vero che il bipartitismo nelle urne è fallito è anche vero che a livello istituzionale e territoriale è ancora molto forte. Nella società civile esso è predominante, assordante, arrogante e vile. Secondo il Censis il 69,3% degli italiani forma la sua opinione politica grazie ai Tg dove il dibattito è largamente impostato ed imperniato sul bipartitismo. Vi è purtroppo un muro di gomma nei mass media il quale respinge le nostre tesi quando non le stravolge. E di questo ne dobbiamo tenere conto!!
Trovo decisamente centrata la riflessione di Savino sul concetto di Nazione. Anzi mi domando decisamente se in una società multietnica e multiculturale come la nostra abbia senso richiamarsi ancora alla nozione di luogo di nascita (riflesso nel concetto di Nazione.
Trovo invece un po’ liquidatorio il riferimento al liberalismo ( occorre sempre distinguerlo dal liberismo) che invece, a mio parere va rilanciata come una delle nostre culture di riferimento.
Ancora ho un po’ di sospetto invece verso l’enfasi sul cattolicesimo sociale che mi richiama alla memoria certe politiche economiche della DC che ci hanno portato al disastro finanziario con l’aumento incontrollato (anche se in piena buona fede) della spesa pubblica.
Infine quello che mi lascia molto perplesso è l’impronta molto autonomistica.
Sono fermamente convinto che il federalismo fiscale, anticamera di quello politico, porterà inevitabilmente alla secessione naturale del nord e del sud d’Italia. Mi piace molto il modello francese che, pur dando spazio alle autonomia locali, rimane fortemente centralizzato.
Già il regionalismo (con particolare riferimento al centro-sud) è stata una iattura per l’Italia (la maggior vicinanza alla popolazione si è riflessa solo nella maggiore spesa non in una migliore amministrazione), spingere in questa direzione ci può portare alla dissoluzione di quel che rimane della Nazione (altro che partito della Nazione!).
Quello che avrei voluto trovare nella relazione sarebbe stata anche una maggiore enfasi su un progetto che vedesse l’Italia sempre più inserita nel contesto culturale e politico europeo.
E ancora mi sarebbe piaciuto trovare un riferimento a tematiche come l’ambiente,la green economy ecc.
Appunti discorso Todi di Savino Pezzotta
Saro un po schematico:
ok su visione nazione
Vorrei che il nuovo partito sia più deciso nel discutere il problema di un paese adagiato sul mito della riduzione tasse senza politica reale di lotta all’evasione fiscale
La globalizzazione è la vera forza della Lega -> su questo Bossi ha visto bene e lungo,
Le nazioni tendono ad essere superate dai distretti Catalogna – nord-est Italia – Lombardia
Le risposte che questi territori chiedono hanno tempi tremendamente + veloci dei sistemi nazione
La gestione regionale del sistema contributivo diventa spontanea conseguenza di questo stato di cose (non sono convinto che sia efficace).
Bisogna dare forze ed autonomia fiscale ai comuni (conseguentemente alle sezioni UDC), costretti a svendere il territorio per mantenere i servizi.
L’esempio dell’aeroporto di Bergamo è calzante ma va segnalato che quello è anche il materializzarsi della mancanza di un sistema di servizi
dalla nazione ( Alitalia è praticamente assente ) e la capacità di dimostrare di essere autonomi (anche se il tutto poggia su un sistema “Rynair” che è fortemente
appoggiato – illegalmente secondo le normative europee – da un sistema nazione -> Irlanda.
Concordo per partito delle autonomie…
Il concetto di monade è difficile da far capire (Leibniz insegna) ma il modello sociale a me appare + legato a gruppi con estrazioni sociali diverse che ad individui.
Le novità a livello UDC regione Lombardia in previsione del nuovo partito mi spingono a dire che la fase di reale cambiamento del partito sta passando.
Posso testimoniare molta ansia e tensione rispetto a questo.
Lo dico solo per confortare Pezzotta sul fatto che la novità c’è.
Non toccherebbe a me dirlo ( ancora no so se entrerò in questo partito) ma sono in piena sintonia con Michele. Fino a quel punto non bene, ma benissimo. Mi lascia molto perplesso il passaggio un pò dubitativo rispetto al discorso di Adornato, peraltro ampiamente masticato. Niente Liberali, socialisti ecc. Magari per fare un partito più identitario. Ma tu pensi davvero che l’Udc abbia questa spiccata identità? A me non pare, anzi mi sembra che il difetto sia proprio molto qualunquismo e moltissimo trasformismo. Penso che qualche persona seria, liberale o vattelappesca, sia proprio quello che ci vuole per far dimenticare tanti passaggi non proprio lineari. Lo dico senza mezzi termini. La Rosa Bianca ha smosso qualcosa, che spero maturi. Prima di allora l’Udc non interessava proprio a nessuno.
Ho molto apprezzato il passaggio sul concetto di Nazione. Effettivamente pensare di poter ricostruire un’unità di popolo in Italia senza affrontare le spinose questioni che da sempre la dividono sarebbe pura follia. Oltretutto, lo ribadisco, ora come ora la divisione in Italia non è soltanto tra nord e sud, ma ne esiste anche una generazionale, ed una (o più) a livello culturale. Ricercare l’unità è pertanto il compito più arduo che ci si possa prefiggere, ma è senza ombra di dubbio anche il sogno più grande e bello che possiamo tentare di realizzare. Spero con tutto il cuore che i dirigenti dell’attuale UdC (su Savino di certo non ho dubbi, a questo punto) abbiano DAVVERO il coraggio di proseguire con corenza e lucidità sul cammino intrapreso, senza tentennamenti o eventuali ripensamenti futuri. Ovviamente la nostra parte dobbiamo farla fino in fondo, e almeno personalmente non mi sottrarrò alla partecipazione.