Sabato scorso, su iniziativa della Comunità e Lavoro presieduta da Sandro Antoniazzi, in collaborazione con gli Amici dell’Abbazia di Viboldone, si è tenuto “l’incontro d’Avvento”, al quale sono stato invitato a presentare una riflessione su : “ Il pensiero di Papa Francesco e le responsabilità dei laici” . E’ stato un bel momento di riflessione, di amicizia e di discussione, cui sono grato di essere stato invitato.
Di seguito il testo della introduzione.
IL PENSIERO DI PAPA FRANCESCO E LA RESPONSABILITA’ DEI LAICI
Grazie per avermi invitato, ma vi devo confessare che , dopo aver dato a Sandro la mia disponibilità, mi sono trovato in un grande imbarazzo che in parte continua tutt’ora. Ho percepito dentro di me una difficoltà a confrontarmi e misurarmi con quanto Papa Francesco sta dicendo, con i suoi gesti e con la sua simpatia.
Ora, il mio problema non di dire se sono d’accordo o meno, ma cercare di vedere cosa questo Papa dice a Savino Pezzotta, quale stimolo mi perviene, cosa propone a una persona che ha un passato di lungo impegno sociale e sindacale e una frazione d’impegno politico-istituzionale come deputato della Repubblica.
C’è una frase del Papa che mi ha molto colpito e che mi spinge a ragionare e vedere le cose in modo diverso ed è quando ha affermato che:” Stiamo vivendo non tanto un tempo di cambiamenti, ma un cambio d’epoca. E’ come se ci dicesse che siamo dentro in una nuova fase della storia e che siamo ormai dentro un mondo nuovo , che in larga parte ancora non conosciamo . Un cambio d’epoca esige attenzioni e riflessioni nuove che siano in grado, in primo luogo, di riposizionare la tua persona, il tuo pensiero , la tua soggettività e le nostre responsabilità di credenti e di appartenenti alla Chiesa.
Per queste ragioni e nella convinzione di essere fortemente , anche per l’età, compromesso con il vecchio mondo, che mi accosto sempre al pensiero del Papa con “timore e tremore”, cercando di non lasciarmi prendere dall’entusiasmo e dall’emotività che sta coinvolgendo molte persone.
Questo atteggiamento che all’apparenza potrebbe sembrare un poco freddo o distaccato, a mio parere dovrebbe essere comune ai laici cristiani che sono invitati e sollecitati a uscire dai loro vecchi paradigmi e a rimettersi in cammino.
Ci dobbiamo chiedere con molto rigore come riusciremo a trasformare l’entusiasmo e la gioiosa emotività che accompagna questo pontificato, in opere, in azioni e in testimonianza. A me sembra che il pensiero di Papa Francesco sia improntato a un realismo cristiano e che a noi sia chiesto, proprio in virtù di questo realismo, d’inscrivere il suo insegnamento all’interno della società attuale.
Come laici cristiani ci troviamo di fronte a una sferzata, a un invito a riflettere se nel corso del nostro impegno siamo stati fedeli al Vangelo o ad altri interessi e se la “riforma della Chiesa”, il costruire una Chiesa dei poveri riguardi solo la condizione clericale, i preti, i vescovi, i cardinali e lo stesso Pontefice o se dovrebbe coinvolgerci più in profondità.
Proprio perché avverto che siamo dentro una serie di processi di cambiamento sociale, economico, politico e morale, possiamo ancora continuare a definirci cristiani o cattolici alla vigilia delle elezioni? o per conquistare briciole di consenso? Fino a quando possiamo continuare a essere i “cristiani della domenica”?. Non voglio mettere in discussione l’importanza della domenica per un cristiano e il “principio sabbatico” che propone, ma il mio usarla come tempo libero e non come un tempo veramente pieno. Ricordiamoci che il fine del lavoro, di ogni lavoro è la festa.
Si ripropone con una radicalità cui non si era abituati la centralità dell’incontro con Gesù Cristo, Salvatore e Misericordioso. L’incontro con Gesù Cristo è la buona notizia che porta la gioia e che ci fa esultare perché è la speranza che alimenta e che ci fa dire che la salvezza non è qualche cosa che sta di là del tempo storico, ma c è qui e ora. Il Regno non è un avvenimento del futuro, ma cresce nel presente.
Papa Francesco non finisce mai di sorprendere. Non si può mai prevedere cosa dirà , ma è sempre comunque una lettura della quotidianità .“Buon pranzo” non è solo un simpatico saluto è l’augurio che tutti possano avere un buon pasto in un mondo che nonostante la sua ricchezza economica e tecnologica ci sono ancora milioni di persone che non si nutrono tutti i giorni o che fanno fatica a conciliare il desinare con la cena. Un linguaggio semplice e immediato . Chi mai avrebbe pensato che un Papa dicesse ai giovani a Rio che: “La fede non può essere un frullato! Non si può fare della fede un frullato! …”. E poi aggiungere: “Dovete fare rumore, disturbare” affinché gli anziani e i giovani “non annacquino la fede. E’ chiaro che se mi sento dire che la fede non è un frullato sono portato a domandami cosa è la fede?
La gestualità di Papa Francesco è diversa e più coinvolgete di quella dei suoi predecessori. Oltre che essere un abile comunicatore sa utilizzare dei codici linguistici tradizionali e una gestualità che arricchisce la comunicazione verbale: usa le mani per fare Ok, per salutare, per inviare baci, per accarezzare e benedire. Il suo sguardo è mite, allegro e coinvolgente .
L’imbarazzo di cui parlavo all’inizio non nasce da una distanza o dalla difficoltà a comprendere, tutt’altro. Germina dagli interrogativi che vengono posti. Siamo obbligati a chiederci se il nostro dichiararci cristiani corrisponde a ciò che questo Papa insegna, dice e manifesta.
Sono convinto che il nostro dirci cristiani sia fortemente interrogato e che i criteri che abbiamo usato lungo una vita di impegno sociale, sindacale e politico siano oggi messi in movimento. Potrei dire che sono sottoposti a una sorta di decostruzione che nasce dall’ascolto di quanto dice Francesco e che fa percepire la possibilità e la necessità di un nuovo discorso all’interno del tuo personale dato di fede, nello stesso tempo si è obbligati a ripensare quei concetti , quell’impianto culturale e i paradigmi entro cui si è detto di essere cristiani.
Questo ascolto interroga anche la mia e la nostra- se mi è consentito dirlo – esperienza socio-politica. Mi sto progressivamente rendendo conto che molta della riflessione e dell’agire impegnarmi si è svolta molte volte all’interno di una sorta di teologia politica o di religione civile che pensava la laicità e l’impegno politico in concetti teologici secolarizzati. Credo che questa sia stata la condizione culturale di molti cristiani del mio tempo, anche dopo la fine della Democrazia Cristiana.
Ha sicuramente pesato l’essere stati coinvolti in uno scontro ideologico che, come quello che abbiamo vissuto nel nostro Paese, ha costretto i cristiani a confrontarsi con una posizione politico-culturale che mirava, non tanto a combattere la religione, ma a superarla.
Abbandonare i lidi della teologia politica non è facile e tende a scontrarsi con le istanze storiche sempre crescenti e sempre più pericolose ed inquietanti. La terza guerra mondiale, per utilizzare un concetto proposto da Papa Francesco, che è in corso e che molte volte ha una matrice nazionalista, etnica e religiosa pone il nostro mondo occidentale a doversi confrontare con il fondamentalismo islamico che oggi ha la forza di far sorgere uno stato si fonda su una teologia politica a cui molti vorrebbero contrapporre qualche cosa di simile nel campo cristiano. Ci rendiamo tutti conto che questo sarebbe un disastro culturale e politico per il mondo. Nello stesso tempo non possiamo pensare di assistere a quanto sta avvenendo con indifferenza.
Ora mi trovo a fare i conti con Papa Francesco che mi propone una interpretazione dinamica del Concilio Vaticano II e che lo sta traendo fuori dalla stagnazione in cui lo hanno racchiuso i conservatori ma anche gli stessi progressisti. Lo fa attraverso un recupero critico e un inveramento storico di quel grande evento, pensato e vissuto con idee e concetti derivati dalle nuove teologie, tra cui quella latino americana fortemente influenzata dalla teologia della liberazione. Ma lo stesso Papa ci avverte che si deve avere sempre un pensiero aperto “ incompiuto” e cercare sempre un “di più”. E’ in questo senso che leggo “ chi sono io per giudicare”. E’ un modo non solo di essere fedele al detto evangelico del “non giudicare”, ma la proposta di vivere in una condizione che resta sempre indeterminata con un pensiero naturalmente sempre incompleto.
Non è la negazione del dogma e della verità, come qualcuno ha teso a dire , ma ad un sapere che non pensa di possedere la verità anche quando pensa di conoscerla. Credere non è una acquisizione fatta una volta per sempre, ma una ricerca permanente e un mettersi in cammino verso.
Nell’intervista al direttore di Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, il Papa ci ha offerto una visione non solo teologica, ma della sua esperienza personale delle fede. La fede è un viaggio; è una storia. Dio non ha rivelato se stesso dettando verità astratte, ma agendo nella storia umana. La risposta della fede, a sua volta, è storica, nel senso che deve essere rinnovata e aggiornata ancora e ancora. Francesco suggerisce anche che la fede non è autentica se non si tinge di una traccia di dubbio e infatti non a caso si riferisce ai padri della fede come Abramo, Mosè e agli Apostoli che hanno vissuto nel dubbio. Il dubbio dice Papa Francesco è lo spazio che si deve lasciare per il Signore e non per le nostre certezze. Ogni vero discernimento include un elemento di incertezza.
Si tratta dunque di vivere la condizione di incertezza che la crisi e le grandi trasformazioni economiche e politiche hanno messo in campo. La crisi che attraversa il Paese ha influito sulla condizione, il tenore di vita e i comportamenti delle persone. Se ci guardiamo attorno e applichiamo il principio di prossimità rileviamo che attorno a noi sta crescendo una diffusa situazione di disagio con pesanti e prevedibili note di pessimismo; le cui cause sarebbero da ricercare principalmente nell’aumento del costo della vita, nel declino dell’economia, in un quadro politico talmente piegato sulle urgenze e le necessità del presente che non riesce ad offrire una visione di futuro. I conflitti, gli scontri che in questi giorni riempiono le pagine dei giornali e che vengono definiti da un lato come una sorta di arcaismo sindacale e dall’altro come una guerra tra poveri, esprimono un crescente senso di insicurezza, sfiducia e paura. Insicurezza: delle garanzie e delle tutele economiche e sociali, una generale sensazione di smarrimento che investe tanto il presente quanto il futuro.
Non mi scandalizza se poi crescono i consensi alla proposta verde nera di Salvini, se prendono spazio forme di ribellione antagonista e se 5 Stelle continua ad essere presente. Il problema , forse, è che anche noi non abbiamo saputo proporre come vivere l’incertezza di questi tempi. Abbiamo inconsciamente pensato che la crisi e i suoi problemi potessero essere superati con la crescita, non abbiamo mai precisato cosa significasse questo termine nella sua declinazione concreta.
Sono convinto che l’incertezza ci accompagnerà per lungo tempo e che finirà per essere la traccia del nostro tempo.
Padre Sivalon, missionario Statunitense, – che oggi insegna Teologia all’Università di Scranton (Pennsylvania), dopo aver operato per oltre vent’anni in Tanzania – in un libro pubblicato dalla Editrice Missionaria Italiana, “ Il Dono dell’incertezza “ sostiene che l’incertezza è un dono e una opportunità se la si legge con la lente della nostra cultura post-moderna. Essa può divenire da fonte di ansietà, di tensione e di paura il motore per nuovi interrogativi e che può portare a far sviluppare un senso concreto dell’umanità e della vulnerabilità.
Ci rendiamo sempre più conto che man mano avanziamo nella conoscenza della micro-genetica, delle neuroscienze e emergono diffusamente le innovazioni rese possibili dalle nuove tecnologie e in particolare dalle nanotecnologie e l’universo dell’infinitamente piccolo, viene a scalfirsi quello che ritenevamo certo, solido, immutabile e che la nostra cultura e visione del mondo viene ridisegnata. Pertanto oggi dentro e attorno a noi sorgono questioni scottanti riguardo alla responsabilità e alle libertà personali, ed è su questo terreno che i laici cristiani devono misurarsi. Si deve ridecidere il come stare in un mondo che mostra sempre maggiori complessità e che pertanto produce anche all’interno di culture pensate omogenee germi di un nuovo pluralismo.
Viviamo in una società in movimento , in trasformazione continua e che il tutto non dipende dalle dinamiche economiche e politiche si sta , a mio parere, formando un intreccio tra economia, politica, tecnologia, e scienza che modifica il nostro essere e la nostra cultura producendo rivolgimenti nell’ordine sociale e nelle vite personali e famigliari, ma che diventa sempre più difficile predire quale ordine ne scaturirà e quale forma prenderà. Per molti di noi è difficile stare in una situazione di questo genere essendoci formati a un pensare che tendeva ( le grandi narrazioni) a precostruire l’architettura della società futura, lo abbiamo fatto anche come cristiani. Ora bisogna cercare di vedere i modelli che ne emergono e restare aperti alle novità e all’imprevedibilità.
Questo ci dovrebbe portare come laici credenti a riscoprire il senso del conoscere e del nostro stare nel mondo senza appartenervi per agire sempre con libertà e responsabilità verso il creato e gli esseri umani che lo abitano.
E’ arrivato il tempo di ripensare il senso dell’impegno sociale e politico. Renderci conto che condividiamo lo stesso destino degli altri e che l’essere servi e testimoni del disegno di Dio su tutti gli uomini esige un cambiamento radicale nel nostro impegnarci e che bisogna postarlo secondo le categorie della ‘relazionalità’ e della ‘alterità’. Non c’è impegno sociale e politico senza l’accettazione dell’altro. Quando si nega l’altro, il nostro essere cristiani è segnato dal fallimento. Su questo il pensiero di Papa Francesco ci può aiutare e stimolare.
Infatti, Egli ci insegna, propone e indica come la dimensione storica e relazionale della fede devono sempre misurarsi con il tempo di Dio che “oggi” Entrambe le dimensioni storiche e relazionali della fede sottolineano l’importanza del tempo. Come laici cristiani dobbiamo essere disposti a “entrare in un processo di” se vogliamo intraprendere e testimoniare un cammino di fede. Dio si rivela dentro e attraverso il tempo ed è presente nello svolgersi degli eventi. La fede richiede la pazienza e la volontà di aspettare. Solo attraverso il tempo siamo in grado di vedere come Dio è all’opera in ogni persona e in ogni situazione. Cosi possiamo vivere la dimensione dell’incertezza e aiutare a viverla senza paura.
Da un punto di vista socio-politico possiamo cogliere l’essenziale del pensiero di Papa Francesco nel capitolo quarto dell’Evangelii Gaudium che si articola su quattro punti e in particolare riflettere su quello che tratta del bene comune e la pace sociale, maggiormente riguarda il nostro impegno di laici, a questi aggiungerei alcuni dei punti che ha delineato nel suo intervento all’incontro con i movimenti sociali.
Nella esortazione apostolica si afferma:
- La pace sociale non può essere intesa come irenismo o come mera assenza di violenza ottenuta mediante l’imposizione di una parte sopra le altre
- Non può servire come scusa per zittire e tranquillizzare i più poveri;
- Le rivendicazioni sociali, che hanno a che fare con la distribuzione delle entrate, con l’inclusione sociale dei poveri e i diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un consenso a tavolino e un’effimera pace per una minoranza felice;
- La dignità della persona umana e il bene comune stanno sopra la tranquillità di alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi.
L’elencazione termina con una proposizione molto chiara e impegnativa: “ Quando questi valori sono colpiti, è necessaria una voce profetica”.
Quante volte ho sentito dei cristiani fare delle recriminazioni sul conflitto sociale, interpretato come adesione a un’ideologia o come rottura di un ordine e di una certa stabilità. I cristiani hanno teso a presentarsi come moderati, non nel senso dell’uso della prudenza e della temperanza e in una logica di conciliazione, ma come accettazione delle status quo. Il conflitto quando sorge può essere frutto anche di strumentalizzazioni, ma ha sempre chiare e profonde motivazioni di giustizia. Denunciare l’ingiustizia e cercare di correggerla è un esercizio di carità e pertanto ha una dimensione profetica.
Questo ci aiuta a entrare nei quattro principi che reggono il capitolo, anche se mi soffermerò brevemente:
- Il primo principio (il tempo è superiore allo spazio), dal mio punto di vista lo leggo come una domanda su come si esercita il potere e la tentazione o la volontà di occupare sempre più spazi. M’impegno in campo politico perché la mia scelta è di vivere di politica che mi sembra uno degli aspetti che incrina l’impegno. Questa è la malattia della politica che non si pone la questione del tempo, ma dello spazio e pertanto di allargare se stessi più che generare tempi diversi che consentano un servizio e un alternarsi virtuoso di passione, competenze, saperi e di generazioni. Quest’occupazione di spazio riguarda in primo luogo la politica, ma investe l’insieme della nostra società italiana e genera un immobilismo complessivo, poiché coinvolge molti spazi in campo economico (penso ai banchieri, finanzieri, imprenditori, manager), in campo sociale. La ricerca di spazi “a vita” preclude l’avvicendamento e la ripartizione delle responsabilità e del servizio, anzi dobbiamo dire che la riduzione dei ruoli pubblici a occupazione di spazi politici, sociali, economici ed ecclesiali invece che di un’assunzione temporale finisce per svuotare l’idea di servizio. Credo anche che molte volte sia germinatore di corruzione e di clientele. La disponibilità ai ruoli pubblici deve essere regolata dal tempo, anche per lasciare tempo a chi si è generato, cresciuto, educato, istruito per fornire prova di se e arricchire il corpo sociale.
- Il secondo principio (l’unità prevale sul conflitto), questa indicazione mi piace molto perché da un lato non nega la possibilità che insorgano conflitti, ma richiama alla necessità di superarli.Penso, come esempio esplicativo,al conflitto sindacale, che è uno dei più criticati dai benpensanti che affliggono la nostra quotidianità, oserei dire che contribuiscono non poco a inquinarla. E’ normale che all’interno di un rapporto d’interessi sorgano dei conflitti e forse è necessario che sorgano perché contribuiscono a rompere la tentazione verso l’immobilismo. Sono convinto che, dove ci sono sindacati forti e rivendicativi, si producano processi d’innovazione che favoriscono l’impresa, quando tutto resta tranquillo, si genera immobilismo. Il problema non è il conflitto ma la capacità di riconoscere le diversità e le asimmetrie e viverci dentro con serenità. Uno sciopero che porta al fallimento un’impresa non è concepibile poiché l’impresa, di là dallo statuto giuridico che ne definisce l’aspetto privatistico, è sempre da considerarsi un bene sociale, oserei dire comunitario. L’unità si realizza quando abbiamo chiaro qual è il bene che si deve salvaguardare per l’oggi e per il domani . Questo principio vale anche per il confronto civile e politico e chiede di contenere le partigianerie estreme che hanno caratterizzato la cosiddetta seconda repubblica inibendo la possibilità di governo, ma esige anche una riflessione sulla nuova stagione della democrazia italiana che vede un passaggio dai partiti ai leader. Avverto che stanno nascendo delle nuove tifoserie e che sembra non abbiano contrappesi e che ciò che conta è la fedeltà al leader, ma questo finisce per rompere l’idea di un’unità che per essere tale deve essere basata sul pluralismo, il confronto, il dialogo e il controllo e contenimento del potere. Questo principio, che l’unità deve prevale sul conflitto, dovrebbe vederci impegnati nella valorizzazione dei corpi sociali, nell’esercizio della sussidiarietà, nelle forme di controllo e di trasparenza delle decisioni pubbliche e non a “farsene una ragione”.
- Terzo principio (la realtà è più importante dell’idea) chiede che si lascino da parte le battaglie ideologiche, che si tenga conto della realtà e si creino le condizioni di dialogo tra opinioni diverse senza ricorrere ad anatemi. Papa Francesco attraverso l’E.G ci invita a fare una distinzione tra realtà e idee, dando una priorità alla prima perché essa è ciò che è mentre le idee sono sempre frutto di elaborazione. Mentre il “principio di realtà” è vedere come é possibile che la conoscenza della realtà che ci circonda possa favorire la pratica dell’evangelizzazione.Proviamo a pensare a com’è nata la crisi economica e finanziaria che stiamo vivendo, la cui origine è da rintracciare nell’idea che fosse possibile fare denaro con denaro astraendo dalla realtà concreta dell’economia. La realtà si è incaricata a riportarci con i piedi per terra, ma con un accumulo di sofferenze umane eccessive e non sempre componibili. Lo stesso potrei dire per chi si ostina a pensare che per far aumentare l’occupazione bisogna riformare le regole del mercato del lavoro, quando il problema della mancanza di lavoro e della disoccupazione non è oggi attribuibile a una rigidità dell’offerta, ma a una scarsità della domanda su cui occorrerebbe agire. La crisi e la necessità di uscirne per evitare che crescano le sofferenze delle persone dovrebbe vedere, stando alle indicazioni di pensiero del Papa, i laici cristiani a contribuire con forza e pensiero politico e sociale al formarsi di un nuovo riformismo, che non può essere solo la correzione di ciò che c’è. Non ho usato il termine di malessere sociale ma quello di sofferenza per esprimere una situazione che non è solo collettiva ma esistenziale e che pertanto non richiede solo ingegnerie socio-economiche, interventi sulla distribuzione dei redditi, la creazione di lavoro e tutte quelle cose che giustamente si rivendicano, ma oggi è esigita un’attenzione più complessa alla persona che significa saper ascoltare, penare insieme e pertanto creare nuove relazioni umane. Quando vedo esplodere la violenza nelle nostre periferie e nel mentre mi pongo interrogativi sull’inefficienza pubblica , mi chiedo anche se non c’è un assenza di noi laici cristiani e delle nostre comunità. Dobbiamo avere la forza e il coraggio del di più e tendere a quel riformismo radicale che scaturisce dalla carità. Ho sempre pensato che il riformismo laburista( per laburismo intendo chi continua a pensare che la persona per emanciparsi, per acquisire autonomia e libertà, ma anche esprimere socialità e cooperazione debba avere un lavoro) di ispirazione cristiana e laica deve continuare ad impegnarsi per l’inclusione e la giustizia sociale, la distribuzione equa della ricchezza, e generare le condizioni di una “vita buona” tutti. Quando leggo i dati della Caritas e dell’Istat sulla povertà, mi rendo conto che non basta più assistere o fare l’elemosina – anche se bisogna continuare a farlo e l’elemosina anonima (non sappia la destra cosa fa la sinistra) resta un dovere cristiano e umano-, ma che occorre assumere il problema come questione politica. La povertà non arriva mai per caso, non è una disgrazia che è capitata per una congiunzione astrale negativa, ma ha sempre cause precise che molte volte nascono dalla nostra indifferenza, ma che s’intrecciano con la mancanza di lavoro, la debolezza delle famiglie e delle persone, questioni che vanno affrontate con un disegno comune. La realtà è superiore all’idea per come leggo queste parole di Papa Francesco, significa avere la capacità di far nascere dentro di noi una sensibilità che ci consenta di cogliere l’impercettibile della realtà. . Oggi siamo riempiti di statistiche, di numeri, di analisi, di numeri che sono certo utili, ma un politico deve imparare a cogliere la dimensione esistenziale della realtà umana.
- Quarto principio ( il tutto è superiore alla parte), è un invito a un fare azione politica e sociale sfuggendo dai corporativismi e dalla particolarità. In tutte le cose cui si è chiamati a intervenire dobbiamo fare uno sforzo per collegarlo all’universale. In questi anno abbiamo tutti subito la tentazione corporativa ( i miei, la mia parte politica, il leader) , provinciale e localista ( il mio territori0, la mia citta, il mio sindacato, la mia associazione) e così lentamente abbiamo contribuito a frammentare e dividere, quando è necessario mantenere una visione unitaria, globale. C’è sempre un bene più grande da perseguire. La coesione sociale è propedeutica al bene comune. Essere costruttore di una tensione al bene comune significa fa prevalere l’universale sul particolare.
Questi quattro principi dovrebbero orientare il nostro agire , ma credo che il richiamo più forte alla responsabilità dei laici è emerso nell’incontro con i movimenti popolari dove ha posto tre temi di impegno sociale e politico: “Terra, lavoro, casa” affermando che se pone questioni di questa natura viene accusato di essere comunista. Succede anche da noi, se uno di noi afferma che certi diritti non vanno toccati, che il sindacato va rispettato, che la disuguaglianza va affrontata viene normalmente accusato di essere retrò e comunista. Questa accusa deriva non tanto da una visione di ideologia politica ma dal concepire il cristianesimo come una filantropia e non come una radicalità in cui “l’amore per i poveri è al centro del Vangelo” e della dottrina sociale della Chiesa . Il Papa in questo suo discorso avanza degli orientamenti a valere per tutta la Chiesa, ma che soprattutto interpellano l’agire dei laici.
La lotta alla povertà. Non si si può limitare ad assistere i poveri che è sempre cosa necessaria ma il Papa affronta temi strutturali: “nessuna famiglia senza tetto, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità del lavoro!” La povertà non si affronta con promesse illusorie ma con l’impegno, la lotta che rendano i poveri protagonisti della loro liberazione dal bisogno. Il compito che viene assegnato è di rendere i poveri protagonisti, soggetti attivi sul piano sociale e politico, in pratica è un appello ad andare oltre l’assistenzialismo, il paternalismo e la visione compassionevole a cui mote volte la politica si è piegata .
Rivitalizzare la democrazia. C’è un esigenza che giorno dopo giorno si fa sempre più urgente anche da noi ed è quella di rivitalizzare la democrazia. Se guardo con attenzione, senza pregiudizi e con la coscienza che bisogna cambiare molte cose nel funzionamento del nostro sistema democratico, non posso però nascondermi il fatto che le diverse riforme che stanno venendo avanti restringono la democrazia invece di ampliarla. Si può anche accettare che i leader assumano più forza rispetto al passato , che il sistema elettorale definisca con chiarezza chi ha vinto le elezioni ed è chiamato a governare , che si semplifichino le istituzioni di rappresentanza, ma contemporaneamente sarebbe necessario definire i contropoteri, non espropriare gli elettori dalle scelte e far passare i nominati, la semplificazione istituzionale ha però bisogno di una nuova e feconda relazione tra il politico e i corpi intermedi. Qui si gioca per i laici una capacita propositiva, perché come dice Papa Francesco che è “impossibile” immaginare “un futuro per una società senza la partecipazione protagonista della grande maggioranza” della persone.
Recuperare il principio di solidarietà”. La solidarietà ha affermato il Papa è “molto più di sporadici atti di generosità, è un pensare e un agire in termini di comunità, di relazioni umane attive e contro l’appropriazione dei beni da parte di pochi, è una equa distribuzione della ricchezza che viene prodotta. Uno dei temi che rende l’attuale situazione moralmente insostenibile è il crescere delle disuguaglianze e il fatto che mentre alcuni sempre più pochi arricchiscono e accumulino ricchezza e potere, i molti e sempre di più debbano avere sempre di meno.Combattere le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della terra e della casa, la negazione dei diritti sociali è secondo il Papa dare corpo politico al principio di solidarietà e serve per contrastare gli “effetti distruttivi dell’Impero del denaro: le migrazioni forzate, il traffico di persone, la droga, la guerra, la violenza”. E allora la solidarietà, “intesa nel suo significato più profondo, è un modo di fare la storia”. Fino a quando si potrà essere indifferenti come laici cristiani di fronte a queste parole e coprirci dietro agli eufemismi con cui definiamo la miseria, il disagio delle periferie, i profughi , i rifugiati e i poveri e ci copriamo scandalizzato dietro “la guerra tra poveri”.
C’è oggi una banalizzazione del male sociale ed esistenziale che bisogna rompere e mettere in discussione. I laici hanno bisogno di esprimere in maniera più forte la dimensione profetica nel nostro tempo. Noi sappiamo che ci sono tra noi dei profeti, persone che vivono con coerenza il loro dirsi cristiani e che hanno la capacità di incarnarsi nelle esclusioni, nelle sofferenze e nelle discriminazioni rendendo credibile la buona notizia del Vangelo. Ma quante volte la spinta profetica viene isolata,discriminata o coperta da maldicenza. Queste persone ci danno fastidio perché mettono in discussione il nostro cristianesimo pantofolaio e conformizzato, l’impegno sociale, sindacale e politico conformista e senza tonalità.
Abbiamo molto discusso nel passato di laicità, ci siamo immersi in discussioni esegetiche su cosa voleva dire “dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio” e credo abbiamo fatto bene e contribuito a rendere la nostra democrazia migliore. Oggi di fronte alle sfide che si presentano bisogna avere la forza e il coraggio di legare la dimensione della laicità con quella della profezia. Essere fautori di questo legame significa andare oltre le opportunità e gli opportunismi, avere competenze da mettere in campo, essere disponibili al servizio politico più che attenti al potere politico, in una parola essere persone spiritualmente vive, capaci di incarnazione.
Per questo serve alimentarsi con la Parola, con la dimensione eucaristica ma anche continuare a stare al desco di maestri come Teillhard de Chardin, Helder Camara, Dietrich Bonhoeffer,Luigi Sturzo, Aldo Moro, Giuseppe Dossetti, Pino Puglisi e tanti altri, e come loro esercitarsi nel pensiero e nell’azione senza timore del rischio.
Compito dei laici cristiani che stanno o vogliono stare al pensiero di Papa Francesco e contribuire a una stagione nuova per la Chiesa e per la società è di avere il coraggio, come diceva Flanney O’Connor di attraversare i “territori del demonio”, perché la Grazia possa irrompere ovunque.
Questa mattina Sandro Antoniazzi mi ha inviato il testo di questa relazione di Savino che avevo già letto nei giorni scorsi. Gli ho risposto così: devo dire che Papa Francesco non poteva fare di meglio.