Il Garantista ha pubblicato oggi un mio articolo di commento al 48 Rapporto Censis sulla situazione del Paese. Il rapporto fa una operazione verità su cui occorre riflettere e far riflettere. Una diagnosi che ci riporta con i piedi per terra e che dovrebbe aiutarci a farci uscire da ogni demagogia. Teniamo sempre presente che con otto milioni di persone senza lavoro non bisogna mettere fine a banalità come il bicchiere mezzo pieno, la luce in fondo al tunnel, la ripresa dietro l’angolo. I problemi veri vanno descritti per quelli che sono in modo che ci sia uno scatto di reazione da parte di tutti. Oggi l’oppio del popolo si chiama ottimismo. Non possiamo essere nemmeno pessimisti, ma esercitare la virtù della speranza e cercare di uscire da una spirale disastrosa che permanendo amplierà le sofferenze dei più deboli e alimenterà tensioni e conflitti, legittimi ma di cui non si sente il bisogno
Impietosa, realistica, concreta ed interrogante , così si presenta l’analisi della società italiana del quarantottesimo rapporto del Censis, l’istituto di ricerca fiondato da Giuseppe De Rita. Ci troviamo di fronte ad una operazione verità di cui il nostro Paese aveva realmente bisogno per uscire dalle promesse politiche che lo avvolgono come una nebbia impenetrabile e offuscate. E’ uno squarcio di luce che illumina i mali cui siamo attraversati e che da anni stanno trasformando in profondità il nostro ambiente sociale e le relazioni tra persone e soggetti.
Come sempre verità ci impressiona e ci intimorisce, poiché svela ciò che si vorrebbe tenere nascosto ed comunque sempre un richiamo alle responsabilità sociali, personali e politiche. Da troppo tempo si continua a prospettare l’imminenza di una ripartenza al punto tale che il termine crescita è diventato un mantra recitato con la stessa convinzione e pretenziosità da destra e sinistra. Si continua a far balenare l’illusione che basta una riforma , un provvedimento legislativo o l’introduzione di una nuova norma (penso in particolare al Job Act) perché si possa avere una fuoriuscita dalle difficoltà.
Mentre è sempre più chiaro, che procedendo su questo percorso si mina e si mette in discussione l’assunzione di responsabilità collettive rispetto ai drammi di un paese e delle tante persone colpite nella carne viva dagli effetti di una crisi che sembra non aver mai termine.
Il rapporto del Censis ci dice che siamo investiti non solo da una crisi economica che drammatizza la questione sociale, occupazionale ed esistenziale, ma che la stessa funge da rivelatore e porta in emersione i tanti mali e le molte contraddizioni cui l’Italia è afflitta.
E’ difficile uscire da una crisi che è nello stesso tempo economica, sociale, politica e morale se è venuta meno la capacità di fare coesione e se si è condizionati da quelle che con una metafora esplicativa il Censis definisce “le sette giare”, intese come mondi chiusi che definiscono e stabilizzano interessi e comportamenti individuali e collettivi che non dialogano, e che sempre più tendono coorporativizzarsi rendendo chiusa una società che aveva tentato di essere aperta.
Siamo di fronte a un ripiegamento complessivo che coinvolge le relazioni sociali, quelle interpersonali, lo stesso spirito del fare impresa e del creare lavoro. A segnare questo avvolgersi su se stessi è sicuramente la bassa natalità che conferma un declino demografico a cui sembriamo non essere in grado di reagire . Un paese di vecchi è biologicamente destinato a scemare, perde quello slancio vitale cui avrebbe necessità assoluta. E’ il segno più evidente che non ragioniamo più sui tempi lunghi e che non sentiamo più l’esigenza di investimenti “pazienti” nella modalità della produzione di beni , servizi e lavoro.
Tutto viene giocato nell’immediato, nel risultato immediatamente fruibile.
Abbiamo celebrato con soddisfazione il superamento delle ideologie, ma ci siamo dimenticati di salvaguardare i valori, di ritessere comportamenti sociali, economici e politici nuovi, anzi si è considerato il riferimento ai principi come una astrattezza da utilizzare solo nei convegni, mentre nella vita pratica doveva predominare il fare, il successo, l’apparire senza interiorità. Un “fare” e un “decidere” centrato sulla affermazione di sé e della propria parte e alieno a valutazioni che si riferissero ad altro che non stesse in questa circolarità. Si è persa la bussola morale rendendo la pratica politica troppe volte arbitraria, piegata agli interessi personali e indifferente dal generare responsabilità collettive, quando non è sconfinata, come dimostrano i recenti fatti di Milano e di Roma, nella corruzione, nella logica mafiosa e omertosa che agiva da forza relazionale nei confronti del potere politico decidente.
Secondo il rapporto del Censis l’Italia tende a configurarsi come una società impaurita , composta da individui soli , vulnerabili e cinici. Su tutto domina l’assenza di lavoro che coinvolge circa otto milioni di persone, un sistema scolastico e formativo che a forza di subire una riforma dopo l’altra è stato fiaccato e che oggi sembra in difficoltà ad affrontare le sfide che vengono dalla nuova economia, e, soprattutto, dalla rivoluzione tecnologica che avanza e modifica in profondità il produrre beni , servizi e lavoro e la stessa vita sociale e personale.
A fronte delle rilevazioni che il rapporto del Censis offre alla riflessione, mi sono convinto che l’unica vera cifra interpretativa su cui concentrare l’attenzione sia quella della disuguaglianza.
Per oltre cinquant’anni è stato un vanto per chi si considerava ancorato ai principi della democrazia sociale e del sindacalismo, operare per creare condizioni di vita migliori per i più poveri attraverso la distribuzione di un lavoro decente, tutelato e rispettato, per estendere il diritto e l’offerta di formazione e di istruzione , per la casa e l’alloggio dignitoso, l’ampliamento dell’assistenza sociale e sanitaria da garantire a tutti attraverso i principi della fiscalità generale e progressiva. La povertà e la sofferenza sono diminuiti, così come la disuguaglianza ed è cresciuto il cosiddetto ceto medio. Oggi assistiamo a una progressiva e latente inversione di questo processo e al crescere delle disparità di reddito e delle opportunità, come lo stesso rapporto Censis dimostra.
Allora diventa chiaro che la politica , il sindacato e ognuno di noi deve preoccuparsi della disuguaglianza. Arrestare e capovolgere la tendenza in corso che vede il crescere e l’ascesa di sempre maggiori disuguaglianze è importante perché mentre incrina il tessuto democratico inibisce e frena la possibilità che possa verificarsi come tutti auspicano l’uscita dalla crisi economica. Bisogna che tutti si convincano che forse è il caso di un “tornare al futuro” e riscoprire le politiche che affrontino la necessità di creare nuove opportunità per tutti per porre fine all’avanzare della disuguaglianza sociale .Per questa strategia è importante che si ripristini il dialogo e il confronto tra istituzioni, politica e corpi intermedi.La disuguaglianza non è un destino inevitabile e che non si può rassegnare alla crescita delle disparità e all’assenza o indebolimento delle oppurtunità tra generazioni, tra chi ha un lavoro e chi non lo ha. Lo stesso Fondo monetario internazionale ha scoperto che una forte disparità di reddito è uno degli elementi che mina sia il ritmo che la sostenibilità della crescita economica, e scopre che gli sforzi di per una ridistribuzione equa della ricchezza che si produce – tra cui la tassazione progressiva e la spesa per la salute e l’istruzione – sono pro-crescita.
Non è soltanto Savino che sostiene la necessità di politiche alternative a quelle che generano disuguaglianze e ciò non solo “perché non ci si può alla crescita delle disparità o all’assenza o indebolimento delle opportunità tra generazioni, tra chi ha un lavoro e chi non lo ha”, ma perché la disuguaglianza frena la crescita e, dice l’Ocse, se si attuano misure per ridurre le disparità di reddito, anche l’economia in generale ne gioverà parecchio.
Di seguito si riporta l’articolo pubblicato l’8 dicembre 2014 dall’Agenzia Redattore Sociale.
Povertà, allarme dell’Ocse: così le disuguaglianze frenano la crescita
Secondo lo studio “Focus inequality and growth” all’aumentare delle disparità economiche corrisponde una frenata della crescita dei paesi. L’Italia, dal 1985 al 2010, ha perso per questo il 6,6 per cento di Pil. “Servono politiche ridistributive”
ROMA – La crescita nelle differenze di reddito fra i più ricchi e i più poveri ci fa perdere miliardi e miliardi di euro e di conseguenza molti punti percentuali di Pil, e non bastano misure politiche ed economiche per affrontare la povertà assoluta, ma bisogna concentrarsi sulla ridistribuzione non solo nei confronti del dieci per cento delle persone che stanno peggio ma anche con provvedimenti orientati a quel 40 per cento che rappresenta le classi sociali medio-basse. Questi i risultati, per certi versi sconvolgenti, dell’ultima relazione Ocse “Focus inequality and growth” che ha analizzato la correlazione fra aumento nelle disuguaglianze sociali e frenata della crescita economica in 21 paesi, fra cui l’Italia.
Nello studio si mostra come le differenze di reddito siano ai massimi storici degli ultimi trent’anni: oggi, nell’area Ocse, il 10 per cento più ricco della popolazione guadagna 9,5 volte di più del 10 per cento più povero, mentre negli anni ’80 il rapporto era di 7. Anche l’indice di Gini, che misura le disuguaglianze sociali, è aumentato in media di tre punti percentuali, passando da 0,29 a0,32 in una scala in cui 0 è nessuna disuguaglianza sociale e 1 è tutto il reddito concentrato nelle mani di una sola persona. Fra l’altro l’Italia ha registrato proprio lo stesso aumento di indice Gini della media Ocse, passando da 0,291 a 0,321.
Ma tutto questo è abbastanza noto. Quello che invece fino a oggi risultava meno dimostrabile era il legame fra disparità di reddito e crescita economica: il rapporto ha rilevato come, all’aumentare delle disparità economiche corrisponda una frenata della crescita del paese. Con un aumento del coefficiente di Gini in media di tre punti, come detto sopra, l’Ocse ha stimato che nei ventuno paesi esaminati ci sia stata, nei 25 anni, fra il 1985 e il 2010, una perdita di ben l’8.5 per cento del Pil (0,35 per cento all’anno). L’Italia, per esempio, ha perso il 6,6 per cento di Pil a causa della disuguaglianza, registrando una crescita dal 1985 al 2010 leggermente superiore all’8 per cento, mentre sarebbe potuta essere del 14,7 per cento. Come dire, il nostro prodotto interno lordo sarebbe potuto crescere di quasi il doppio rispetto a quanto è cresciuto se la nostra società avesse diminuito drasticamente le disuguaglianze.
Più o meno la stessa riduzione di punti percentuali di Pil a causa delle disparità di reddito (fra il 6 e il 7 per cento) è stata registrata negli Stati Uniti e in Svezia. Più del 10 per cento di Pil sarebbero andati in fumo in Messico (-11,3 per cento) e Nuova Zelanda (-15,5 per cento), e quasi il 9 per cento nel Regno Unito, in Finlandia e in Norvegia. Dall’altro lato dello spettro, una diminuzione delle differenze nella distribuzione del reddito ha aiutato il Pil pro capite a crescere in Spagna, Francia e Irlanda.
E gli effetti negativi di queste differenze nel reddito, secondo l’OCSE, non si fanno sentire solo nel 10 per cento più povero della popolazione, ma anche nei quattro ultimi decili, in pratica in quasi metà degli abitanti che fanno parte dei ceti meno abbienti. Da qui la raccomandazione del rapporto di attuare politiche ridistributive mirate attraverso sussidi alle famiglie con bambini, per esempio, per favorirne l’educazione e la scalata sociale, ma anche attraverso tasse e sussidi mai però dati a caso. Infatti, si rileva nello studio, la ridistribuzione frena la crescita solo quando è fatta male, a pioggia e crea quindi spreco di risorse non essendo focalizzata ad obiettivi e categorie di persone ben precisi.
Ma perché la disuguaglianza frena la crescita? Dalla relazione OCSE emerge una teoria ben precisa che ha a che fare, come accennato, con l’istruzione: le differenze di reddito, prevenendo l’accumulazione di capitale umano, creano meno opportunità educative per le categorie di cittadini più svantaggiati, anche quando vengono da famiglie con un livello di istruzione medio-alto. Queste mancate opportunità si rilevano sia nei meno anni di scuola che nella scarsa qualità del processo di apprendimento di certe capacità, ad esempio le abilità matematiche. In conclusione, il rapporto sfata il mito secondo cui i politici devono sempre trovare un difficile compromesso fra il favorire la crescita economica e il combattere le disuguaglianze sociali. In pratica, dice l’Ocse, se si attuano misure per ridurre le disparità di reddito, anche l’economia in generale ne gioverà parecchio.