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La rivista : Vita Pastorale ” diretta da don Sciortino, pubblica un mio commento al documento dei Vescovi Italiani per il Primo Maggio. E’ sicuramente un fatto importante che i vescovi italiani presentino un documento per il primo maggio : Festa del Lavoro .

PRIMO MAGGIO : I VESCOVI ITALIANI ALLE LAVORATRICI E AI LAVORATORI
Viviamo in un tempo segnato da profondi cambiamenti che stanno ridefinendo la società, l’economia e la politica. Questi mutamenti, condizionati e implementati dalla sempre più veloce pervasività delle nuove tecnologie, ci pongono di fronte a sfide senza precedenti e che ci obbligano a ripensare e riprogettare le basi su cui si è retto fino ad oggi il nostro modo di organizzare la società e gestire l’economia. Siamo immersi in un contesto socio-economico segnato da possibilità, mezzi e strumenti senza precedenti ma, nonostante questo, ci sembra che la nostra società abbia perso di vista i suoi veri fini. Ci sentiamo collocati in una condizione paradossale molto incerta e divaricata, in bilico tra le promesse della scienza e le potenzialità della tecnica e il permanere dei vecchi mali: la guerra, la povertà, il ritorno delle pandemie, il disastro ecologico e la minaccia termonucleare. Le nostre società sono attraversate da un’onda di paura che spinge all’assunzione di atteggiamenti irrazionali e a sfuggire alle responsabilità.
In questo contesto il messaggio dei Vescovi Italiani in occasione della Festa dei Lavoratori e delle lavoratrici del Primo Maggio 2024 tende ad andare in direzione diversa e già nel titolo “Il lavoro per la partecipazione e la democrazia” indica la volontà di un itinerario di speranza e di fiducia.
Il messaggio propone con forza un’idea di lavoro che sfugge alle forme usuali con cui di solito si affronta questo tema: non si fanno numeri, teorie, promesse ma si viene richiamati a una visione del lavoro come partecipazione alla grande opera divina di cura dell’umanità e del creato.
Il lavoro non viene letto come semplice azione individuale o un semplice “fare qualcosa “, ma come un agire “con” e “per” gli altri e pertanto in antitesi allo sfruttamento e alla precarizzazione: da qui l’importanza di garantire un impiego dignitoso per tutti.
Nel ricordare che le Chiese Italiane stiano già gurdando alla 50.ma Settimana Sociale dei cattolici in Italia, che sarà celebrata a Trieste dal 3 al 7 luglio, sul tema: “Al cuore della democrazia: partecipare tra storia e futuro”, i Vescovi vedono il lavoro sotto la lente della partecipazione e affermano che la “cosa pubblica” (La Res Pubblica) è frutto del lavoro di uomini e donne che contribuisce a consolidare e ampliare la democrazia nel nostro Paese. Senza l’esercizio di questo diritto e l’assicurazione che tutti possano esercitarlo, non si può realizzare il sogno della democrazia. Il lavoro, come dice Papa Francesco nell’enciclica Fratelli tutti, è “il grande tema” del nostro tempo. Ciò chiede una politica non sottomessa agli interessi finanziari, ma capace di porre al centro dei sui interessi e interventi la dignità di ogni essere umano e assicurare il lavoro a tutti, affinché ciascuno possa sviluppare le proprie capacità e partecipare alla realizzazione del bene comune.
Nell’indicare questa direzione di marcia il messaggio per il primo maggio avanza delle indicazioni per migliorare la condizione delle persone al lavoro:

  1. Impiego dignitoso per tutti: significa agire contro lo sfruttamento e il precariato, auspicando un impiego che riconosca la dignità di ogni persona. Questo implica garantire condizioni di lavoro adeguate, retribuzioni giuste e rispetto dei diritti dei lavoratori.
  2. Investimenti in formazione e innovazione: per affrontare le sfide del mondo del lavoro in continua trasformazione alimentate e promosse dalle nuove tecnologie e soprattutto dall’intelligenza artificiale, diventa essenziale che pubblico e privato investano in progettualità, innovazione e formazione.
  3. Guardare alla politica e alla democrazia: Il lavoro può migliorare la partecipazione alla politica. Garantire il diritto a un lavoro dignitoso, equamente retribuito e tutelato può contribuire a far avanzare il sogno della democrazia.
  4. Priorità alla famiglia e alla formazione: In una situazione di “inverno demografico” che impoverisce la società sul piano umano ed economico, garantire il diritto al lavoro è porsi sul terreno della carità politica e e della democrazia. Riconoscendo la dignità di ogni attività operativa, lavorativa, costruttiva e creativa si consente alle famiglie di formarsi, di essere generative e di vivere serenamente.
    In sintesi, i vescovi italiani pongono l’accento sulla centralità umana più che su quella economica del lavoro, sulla sua dimensione sociale e sulla necessità di garantire opportunità dignitose per tutti, affinché la società possa prosperare e rispettare i diritti umani, riconoscendo la dignità di ogni persona si permette alle famiglie di formarsi in tranquillità. .
    Di fronte a un linguaggio pubblico che sovente sfiora la banalità, la superficialità che valorizza le semplificazioni, le apparenze, il consumo e il facile consenso, il messaggio dei vescovi abbandona la retorica che di solito accompagna i discorsi sul lavoro e la democrazia, per proporre la fatica di un cammino di impegno e di responsabilità senza altra pretesa che quella di “spostare di mezza spanna” la realtà verso i problemi essenziali del vivere e del convivere, quali il lavoro, la famiglia, la democrazia, la pace, fondamentali per la costruzione del bene comune incoraggiando la solidarietà di tutti verso tutti per una possibile condivisione del pane.
    È un invito a non subordinare la persona al potere della tecnica e mantenendola profondamente umana, anzi sempre più umana, ad agire nella prospettiva di intensificare l’umano a fronte dell’affermarsi della pervasività della tecnologia e dell’imminente compiersi di una società e di un lavoro dominati dal digitale. È dentro le trasformazioni, le innovazioni e i cambiamenti che vanno colte, oltre le potenze, anche le debolezze e le vulnerabilità del vivere umano che nessuna tecnocrazia potrà superare. Da qui, la necessità di alimentare la speranza e l’impegno per costruire un ‘altro mondo più solidale, cooperativo e rispettoso della Patria¬-Terra e degli esseri che vi vivono.
    L’umanità è obbligata a uscire da un sistema che tende ad essere imperniato sull’ineluttabilità della guerra, della violenza, dello sfruttamento umano e ambientale per costruire un sistema sociopolitico nonviolento, di partecipazione, di libertà e di umanesimo planetario. Si tratta di mettere in campo un agire capace, giorno dopo giorno, di attivare le forze energetiche che sono racchiuse in ogni persona per elaborare nuovi percorsi di costruzione e di vigile attesa, di riflessione profonda e costante che consentano di coltivare un pensiero e un agire trasformativo capace di mutare il vivere insieme e di superare le paure che guerra, pandemia e povertà hanno introiettato dentro la nostra vita e che vi permangono.
    Leggere e meditare questo messaggio è intraprendere un viaggio che va oltre le parole che lo compongono e che invita all’urgenza di un impegno sociale e politico di cui la ricorrenza del Primo Maggio resta una storica e forte espressione.

Viviamo in un mondo dominato dalla tecnica e dai suoi artefatti che sono diventati fattori determinanti della società e delle relazioni umane più della politica e dell’economia. La tecnica e i suoi artefatti digitali non sono in sé né buoni né cattivi e per essendo utili sono estremamente ambivalenti.

 Il problema del cambiamento della natura della tecnica nella società è una questione con cui dovremo imparare a fare i conti. Ci troviamo di fronte al fatto che la tecnica e i suoi artefatti da strumenti che permettono all’uomo di superare sé stesso, sono diventati un processo autonomo al quale l’uomo è soggetto. La loro pervasività sta modificando il nostro modo di vivere e di comunicare.

Questo mutamento assume connotati drammatici e inquietanti nelle attuali   guerre in Ucraina e in Israele /Palestina, dove i droni (ultimo ritrovato tecnologico per la guerra) hanno assunto un ruolo fondamentale e hanno accelerato una tendenza tecnologica da molto tempo prospettata e che potrebbe ulteriormente evolversi e portare sul campo di battaglia i primi robot da combattimento completamente autonomi inaugurando una nuova era di guerra.

Più a lungo durano le azioni belliche, più è probabile, secondo alcuni analisti militari e ricercatori di Intelligenza Artificiale, che i droni vengano utilizzati per identificare, selezionare e attaccare obiettivi senza l’aiuto degli esseri umani.  Ciò segnerebbe una rivoluzione nella tecnologia militare, profonda quanto l’introduzione della mitragliatrice.

 L’Ucraina dispone già di droni d’attacco semi-autonomi e armi anti-drone dotate di Intelligenza Artificiale. La Russia afferma anche di possedere armi con intelligenza artificiale, anche se le affermazioni non sono provate.

 Al momento non ci sono casi confermati di una nazione che abbia messo in combattimento robot che hanno ucciso interamente da soli. Gli esperti dicono che potrebbe essere solo una questione di tempo prima che la Russia o l’Ucraina, o entrambe, li dispieghino.

 Molti stati stanno sviluppando questa tecnologia ed è abbastanza prevedibile che non sia poi molto difficile pervenire a risultati. Come militanti per la pace non possiamo lasciarci prendere dal senso di inevitabilità. Per prima cosa dobbiamo cercare, come alcuni associazioni pacifiste americane stanno facendo, di proporre il divieto che di usare i droni killer

. Questi droni, a volte chiamati “droni kamikaze” o “loitering munitions” in gergo tecnico, stanno rivoluzionando il modo di fare la guerra. Sono in grado di colpire bersagli con un rapporto costo/efficacia particolarmente basso, rendendoli strumenti di guerra molto efficaci. Ad esempio, i droni kamikaze Shahed-136, forniti alla Russia dall’Iran, sono in grado di colpire con una testata bellica di 40 chilogrammi a grande distanza, paragonabile a quella raggiunta da un moderno e costoso missile da crociera. L’Intelligenza Artificiale permette a questi droni di riconoscere il loro bersaglio, di rilevare e tracciare un obiettivo in volo e di poter rientrare alla base se non ci sono bersagli validi. Questo rende i droni killer strumenti di guerra molto versatili e potenti e possono uccidere e colpire i bersagli senza la partecipazione umana. L’uso di droni killer è stato osservato in vari conflitti recenti, come il conflitto in Ucraina e il breve conflitto in Nagorno-Karabakh del 2020. In questi conflitti, i droni hanno dimostrato di essere strumenti di guerra molto efficaci, in grado di cambiare il corso delle battaglie.

Teniamo presente che anche l’Esercito Italiano dispone di una varietà di droni per diverse missioni. Questi droni sono utilizzati principalmente per la ricognizione e il controllo del territorio. Ecco alcuni dei droni in dotazione all’Esercito Italiano:

  • Predator: Medium altitude, long endurance; apertura alare 14,8 metri, lunghezza 8,2 metri; Funzione: ricognizione; Carico Utile: 204 kg1;
  • Reaper: Medium altitude, long endurance; apertura alare 20,1 metri, lunghezza 10,8 metri; Funzione: ricognizione e attacco; Carico Utile: 1400 kg1;
  • P1HH: Medium altitude, long endurance; apertura alare 15,6 metri, lunghezza 14,4 metri; Funzione: ricognizione; Carico Utile: 450 kg1;
  • MALE 2025: Medium altitude, long endurance; apertura alare 26,6 metri, lunghezza 14 metri; Funzione: ricognizione – armabile; Carico Utile: 1400 kg1;
  • Global Hawk: High altitude, long endurance; apertura alare 39,8 metri, lunghezza 14,5 metri; Funzione: ricognizione; Carico Utile: 1360 kg1;
  • Neuron: Aeromobile da combattimento a pilotaggio remoto; apertura alare 12,5 metri, lunghezza 9,2 metri; Funzione: attacco; Carico Utile: 500 kg1;
  • Shadow 200: Aeromobile tattico a pilotaggio remoto da catapulta; apertura alare 4,2 metri, lunghezza 3,4 metri; Funzione: ricognizione.

Questi droni sono oggi utilizzati per missioni di sorveglianza aerea e nel contrasto a crimine e terrorismo.

I droni sono già in grado di riconoscere bersagli come i veicoli corazzati utilizzando immagini catalogate. Ma c’è disaccordo sul fatto che la tecnologia sia abbastanza affidabile da garantire che le macchine non sbaglino e tolgano la vita ai non combattenti. Il numero di droni dotati di intelligenza artificiale continua a crescere.

Israele li esporta da decenni. La sua Harpy può sorvolare i radar antiaerei fino a nove ore in attesa che si accendano.

Altri esempi includono l’elicottero armato senza pilota Blowfish-3 di Pechino.

La Russia ha lavorato su un drone subacqueo AI a testata nucleare chiamato Poseidon.

Gli olandesi stanno attualmente testando un robot terrestre con una mitragliatrice calibro 50.

L’Intelligenza Artificiale è una priorità per la Russia. Il presidente Vladimir Putin ha detto nel 2017 che chiunque dominerà quella tecnologia governerà il mondo. In un discorso del 21 dicembre, ha espresso fiducia nella capacità dell’industria bellica russa di incorporare l’Intelligenza Artificiale nelle macchine da guerra, sottolineando che “i sistemi d’arma più efficaci sono quelli che operano rapidamente e praticamente in modalità automatica”.

Finora lo sforzo di stabilire regole di base internazionali per i droni militari è stato infruttuoso. Nove anni di colloqui informali delle Nazioni Unite a Ginevra hanno fatto pochi progressi, con le principali potenze, tra cui gli Stati Uniti e la Russia che si sono opposte a un divieto.

L’ultima sessione, a dicembre, si è conclusa senza un nuovo round in programma. Gli scienziati temono anche che le armi dell’Intelligenza Artificiale vengano riutilizzate dai terroristi. In uno scenario temuto, l’esercito degli Stati Uniti spende centinaia di milioni per scrivere codice per alimentare i droni killer. “

PER LA PACE IL 18 Maggio ANDIAMO ALL’ARENA DI VERONA.

Papa Francesco è stato ampiamente criticato per aver sostenuto i negoziati di pace tra Ucraina e Russia. Tuttavia, fa parte di una lunga tradizione vaticana. Durante la Prima guerra mondiale, anche Benedetto XV fu anche criticato per il suo appello a negoziare con un aggressore come era nei confronti del Belgio la Germania.

 Il perseguimento della pace nel mondo fa parte della politica estera vaticana sin da Leone XIII.

Il successore di Leone, Benedetto XV (1914-1922), fu particolarmente provato. Eletto nel settembre del 1914 e si confidava molto che intervenisse diplomaticamente per porre fine alla guerra iniziata poche settimane prima.

Fin dall’inizio, ha insistito – come hanno fatto i papi successivi – sul fatto che la Santa Sede non avrebbe preso partito. Nel 1915 Benedetto XV dichiarò che Cristo era morto per tutti gli uomini. In questo senso delineo la sua interpretazione cosa significasse essere Papa.

Armistizio

Nella sua prima lettera dopo aver assunto l’incarico, ha invocato la pace e lo ha fatto più e più volte. Pochi mesi dopo, nel Natale del 1914, si batté senza successo per una tregua durante le vacanze. Considerava la preghiera come “l’arma” più efficace, ma si adoperò attivamente anche per una fine politica del conflitto.

Il fatto che egli abbia così adempiuto al ruolo di “padre comune” essendo imparziale è stato conteso in tutta Europa. Benedetto XV fu accusato di non aver condannato l’Austria-Ungheria e l’Impero tedesco. Questo nonostante il fatto che fossero chiaramente l’aggressore a causa dell’invasione tedesca del Belgio.

Scambio e cura dei detenuti

Nei primi anni della Prima guerra mondiale, il papa si concentrò sull’alleviare le sofferenze umane da tutte le parti, facendo sforzi per lo scambio di prigionieri e fornendo cure mediche alle vittime di guerra. Per la prima volta, il Vaticano ha collaborato con la Croce Rossa Internazionale.

Nel 1917, i combattimenti si erano trasformati in una guerra di trincea in cui morirono centinaia di migliaia di persone. Non c’era fine in vista. Quando un tentativo di negoziati segreti franco-tedesci mediati dal Vaticano fallì, il papa sentì che era giunto il momento di rivolgersi agli Stati belligeranti con una “nota di pace”

Nella sua nota Benedetto XV scrisse:

“Ma per non limitarci a espressioni generiche, (…) Scendiamo ora a proposte più concrete e pratiche, e invitiamo i governi delle nazioni belligeranti a mettersi d’accordo sui seguenti punti, che in apparenza devono essere presi in considerazione come fondamenti di una pace giusta e duratura”.

Propose il disarmo totale e l’evacuazione dei territori occupati, cioè un ritorno allo status di poco prima della guerra. Un tribunale arbitrale internazionale con il compito di risolvere le questioni territoriali controverse.

Reazione negativa

La nota di pace divenne in seguito un testo chiave per il movimento pacifista cattolico, ma non ebbe alcun effetto durante la Prima guerra mondiale. Anche i vescovi tedeschi hanno reagito negativamente alla nota e hanno voluto impedirne la distribuzione. Come molti tedeschi, credevano ancora in una “pace vittoriosa” e vedevano i compromessi necessari per una pace negoziata come concessioni vergognose. La situazione si è riflessa sul lato francese. Il mancato armistizio e il proseguimento del conflitto comporto che centinaia di migliaia di soldati dovettero morire.

Enciclica sulla pace

Anche dopo la guerra, Benedetto XV rimase impegnato per una pace giusta e si adoperò per alleviare le sofferenze umane. Finita la Guerra Benedetto XV attraverso lettere e discorsi non smise di proclamare la necessità della Pace.

La vera pace, secondo il Papa, può essere raggiunta solo attraverso la riconciliazione di nazioni precedentemente ostili. La rappresaglia e la vendetta furono il terreno fertile per nuove violenze. L’ascesa dei nazisti nell’umiliato Reich tedesco gli avrebbe dato ragione postuma. L’opera di Benedetto XVI per la pace e il suo impegno umanitario sono stati ampiamente riconosciuti solo dopo la fine della guerra.

I PAPI APOSTOLI DELLA PACE

Noi cristiani che viviamo in questi tempi di guerra sappiamo che con la fine del potere temporale dei papi si è passati dalla “QUESTIONE ROMANA” che tanto impegnò il mondo cattolico, all’attuale e impellente “QUESTIONE DELLA PACE e DELLA FRATERNITA’”. Papa Francesco ci spinge su questo terreno e ci chiede una mobilitazione coerente.

Dall’opera del Papi per la pace il Vaticano è diventato un propugnatore di pace e cooperazione internazionale.

PAPA FRANCESCO IL 18 APRILE PARTECIPERA’ AL TRADIZIONE INCONTRO PER LA LA PACE CHE SI TIENE ALL’ARENA DI VERONA

Papa Francesco il 18 Maggio parteciperà all’Arena di Verona all’incontro “Arena di pace 2024”. Credo che sia importante e significativa la presenza del Papa a questo evento che discute, come da tradizione su questo tema a Verona, di pace.

Papa Francesco, come del resto tutti i Papi del Novecento ha interpretato da sempre un ruolo di primo piano in un’interpretazione diversa rispetto un po’ alla mentalità più diffusa circa la pace.

Questo incontro è un appuntamento importante per i cristiani e gli uomini e le donne di buona volontà, i movimenti popolari, i sindacati e le associazioni che lavorano sulla e per pace. Lo è soprattutto in questo momento in cui crescono le tentazioni belliciste e il favore verso le Armi e le soluzioni armate dei conflitti e dove l’unica parola che si sente pronunciare e propagandare è GUERRA. Io penso che oggi sia importante e non solo per il presente ma con lo sguardo rivolto al futuro si gridare ogni giorno: PACE, PACE. Per questo credo che ARENA 2024 sia per tutti gli amanti della pace e della convivenza umana una occasione da valorizzare.

Savino Pezzotta

Questo articolo è frutto di un dialogo tra il sottoscritto e Adriano Serafino. In questi giorni abbiamo cercato di riflettere con attenzione, sulla base della nostra esperienza di sindacalisti, sull’insorgenza dei contadini con i loro trattore per le strade d’Europa e italiane

Siamo convinti che dobbiamo guardare con molta attenzione al movimento contadino che si sta diffondendo in tutta l’Unione Europea. Proprio perché vede protagonista una categoria sociale di solito schierata su posizioni moderate rappresenta una chiara evidenziazione del malessere profondo che serpeggia nelle società europee e che denuncia il riemergere nel lavoro di forme e modalità alienati.

Del movimento contadino che si sta diffondendo in tutta l’Unione europea non dobbiamo vedere solo gli aspetti normativi ed economici ma intravedere la costante che riguarda tutti i lavori umani che al di là di ogni retorica tecnottimista sono oggi sottoposti a una sottovalutazione che non riconoscendo il valore sociale di ogni lavoro lo piega esclusivamente alle esigenze del sistema consumistico e pertanto alla logica capitalista del rendere il lavoro una semplice merce tra merci e pertanto sottoposta alla logica della domanda e dell’offerta.

LE RAGIONI

Va comunque rilevato che la “rivolta dei trattori” in più paesi europei e nel nostro paese è scaturita, quasi sempre da movimenti di base e spontanei, per questi principali motivi: l’alto costo del gasolio e le agevolazione Eu in scadenza nel 2026; la richiesta di prorogare le agevolazioni Irpef annullate dalla Legge di Bilancio 2024; la contestazione ad alcune norme del Green Deal e della Politica agricola comune (Pac): la riduzione nell’uso dei fitofarmaci del 50% entro il 2030, l’alto costo delle sementi, dei concimi, dei fitofarmaci imposti dalle multinazionali; l’obbligo di tenere a riposo il 4% dei terreni per potere accedere ai contributi comunitari, una norma (generalizzata) già rinviata nel 2023 e ora se ne propone una seconda al 2024, ma agli agricoltori non basta; l’enorme forbice tra quanto viene pagato ai produttori e il prezzo del prodotto venduto al dettaglio.

LE MODALITA’

Le manifestazioni non sono state promosse dalle associazioni dei contadini ma da comitati spontanei che hanno promosso le manifestazioni. Mentre i dirigenti delle associazioni ufficiali che si assentavano dalle manifestazione dei trattori sono state ricevute dalla premier Meloni, i comitati promotori della protesta non sono stati convocati ne sentiti, mentre sono stati invitati al Festival di Sanremo ma poi non gli è stata offerta la visibilità ma ci si è limitati a una lettura da parte di Amadeus della loro lettera sintetizzata in poche righe.

Si può constatare che i risultati fin qui raggiunti presentano non poche contraddizioni, rallentano il Green deal, danno risposte modeste sul piano della difesa del reddito degli agricoltori, e si limitano a deboli enunciati sui nodi della filiera agroalimentare per definire i costi di produzione e come sostenere gli agricoltori a difendere le coltivazioni attuando la riduzione dei fitofarmaci.

La situazione dell’agricoltura, in particolare per le aziende con poche decine di ettari subisce una vera tirannia del mercato (strozzinaggio e sfruttamento), in barba ai principi del libero mercato che si autoregola enunciati da Adam Smith e della corretta concorrenza.

La protesta degli agricoltori, sorge dal basso, ed è un ulteriore segnale della crisi che investe la democrazia italiana e europea e che si sta indebolendo anche attraverso lo svuotamento del ruolo dei cosiddetti corpi intermedi – grandi associazioni e sindacati – che dovrebbero meglio delle Istituzioni essere collegate al sentire popolare. Ma non è più così, da tempo!

E’ prassi normale che le decisioni assunte dalle associazioni di categoria e intercategoriali avvengano senza fare partecipare i propri associati sia per le analisi, sia per le decisioni. Così pure avviene per la gran parte dei sindacati dei lavoratori e dei pensionati.

A noi vecchi sindacalisti hanno insegnato che anche quando non eravamo del tutto concordi con le iniziative spontanee non dovevamo astrarci ma essere presenti per confrontarci e orientarle, per stendere una sorta di “protezione” sui partecipanti.

RISULTATI

I nodi sopra ricordati ben difficilmente si possono risolvere con iniziative messe in campo dalle sole associazioni dell’agricoltura, che inevitabilmente finiscono in una logica difensiva corporativa. La filiera dell’agricoltura deve sapersi collegare a quella dell’agro-alimentare, possibile se si opera per costruire una indispensabile alleanza tra: produttori agricoli – logistica e trasformazione dei prodotti – consumatori.

Ovvero un’alleanza strategica tra sindacati degli agricoltori e quelli confederali che rappresentano milioni di lavoratori e pensionati. Indispensabile anche per affrontare i problemi epocali della transizione climatica. Con una simile alleanza s’imbocca la strada che consente di operare – per la grande rappresentanza che si esprime – come “soggetto politico” per confrontarsi con un peso rilevante verso le multinazionali e il governo.

APRIRE UNA RIFLESSIONE.

Ora va aperta una riflessione attenta su significato che questa insorgenza ha messo in evidenza, soprattutto da parte del sindacato confederale: gli agricoltori, i contadini hanno lottato, portato in strada i trattori, avuto incontri, senza l’ausilio delle organizzazioni di categoria. Le tradizionali associazioni dei contadini sono state scavalcate, e i contadini hanno scelto la strada del far da sé e promuovere i loro interessi senza le loro organizzazioni di rappresentanza. Ecco perché bisogna che ci si chieda senza infingimenti se una situazione di questo genere non potrebbe verificarsi anche in altre categorie di lavoratori?”.

Il sindacato confederale (CGIL, CISL, UIL) deve riflettere con molta attenzione su questa insorgenza. Quello che colpisce è vedere il manifestarsi concreto di una crisi delle tradizionali forme della rappresentanze che fa intravedere il manifestarsi di una crisi dei corpi intermedi e pertanto ad un ulteriore aggravarsi della nostra democrazia di cui i corpi intermedi organizzati delle associazioni di rappresentanza sono sempre stati considerati, a partire dalla Costituzione, come fondamentali per un corretto funzionamento di una democrazia partecipata.

Inoltre, non si deve sottovalutare il fatto che tutto questo si manifesta in un momento che vede la nostra società trasformandosi sempre più in fretta e che i paradigmi sociali, economici, morali e culturali del nostro passato stanno radicalmente mutando generando incertezze e insicurezza.

LA SVALORIZZAZIONE DEL LAVORO UMANO

Il lavoro agricolo e la valorizzazione del capitale in agricoltura hanno la specificità di dipendere dai cicli della natura. Questo fatto ha indotto il capitalismo a non investire direttamente in essa. Ha quindi scelto di rinchiudere il contadino in una morsa per ridurlo allo stato di estrattore e produttore di beni che vengono controllati e gestiti sul mercato dalle imprese, dando credito all’idea che la materia prima agricola sia una merce – e non un bene comune – scambiabile come qualsiasi altra merce sul grande mercato mondiale, gettando tutti i contadini del mondo nelle fauci di una “concorrenza libera e (presuntamente) non falsata”.

Questa tenaglia comprende, da un lato, le industrie di produzione a monte (fornitura di macchinari, fertilizzanti, prodotti fitosanitari) e l’industria a valle, cioè le industrie di trasformazione e di vendita, per non parlare del ruolo delle banche, di cui nessuno parla. Tuttavia, fin dal primo giorno di fondazione di un’azienda agricola, per un giovane agricoltore la banca diventa il suo padrone. Essa è soggetta ad essa, fin dalla prima ora, con la contrattazione di prestiti per dotarsi di capitale produttivo – terreni, edifici, macchinari. E da questo capitale, che – a parte la terra in alcuni luoghi – si sta deprezzando, la banca prende la decima, attraverso gli interessi, mentre i prezzi e i volumi di produzione dell’azienda agricola fluttuano, a seconda del suolo, del clima o delle malattie.

Una corsa disperata a capofitto che aggrava ulteriormente lo sfruttamento mortale del lavoro contadino e di quello della natura. Sono le successive deregolamentazioni che hanno spianato la strada alla caduta dei prezzi agricoli nel quadro del “mercato aperto in cui la concorrenza è libera”. Per compensare la pressione sui prezzi alla produzione, le istituzioni e i governi europei hanno incoraggiato l’aumento della produzione e l’intensificazione del lavoro (il caporalato e dintorni), lo sfruttamento illimitato della natura, con l’iper-meccanizzazione e soprattutto l’infernale dipendenza della produzione dalle industrie americane o brasiliane dei fertilizzanti, fitosanitarie e delle proteine animali.

Così, dopo le autorizzazioni di brevettabilità degli organismi viventi, le grandi multinazionali forniscono sia sementi geneticamente modificate che prodotti chimici per il trattamento ad essi adattati. L’allevamento di bestiame da latte è stato anche spinto a eliminare le razze locali e a sostituirle con nuove razze importate, selezionate per essere la “Formula 1” della produzione lattiero-casearia dipendente da questa soia la cui produzione distrugge la foresta pluviale amazzonica.

Il lavoro contadino è così accerchiato, saccheggiato, diretto dal grande capitale, che esercita pressioni per aumentare la produttività. Tuttavia, la produttività del capitale investito, come quella della natura, sta ormai raggiungendo i suoi limiti e sta mettendo in difficoltà anche le aziende agricole più grandi. È, infatti, nel tentativo di migliorare questa produttività che gli “standard” vengono messi in discussione. Si tratta di una corsa disperata a capofitto che aggrava ulteriormente lo sfruttamento mortale del lavoro contadino e della natura.

Questi sono gli strumenti che assicurano il capitalismo globalizzato e che hanno portato i contadini a credere di dirigersi verso la prosperità imbarcandosi nella folle battaglia sui mercati internazionali. Ma le aziende agricole europee non hanno la grandezza di quelle americane e questo rende la competizione notevolmente impari e consente alle grandi imprese internazionali di abbassare i prezzi di approvvigionamento e di ingrassare i loro profitti. Questo è stato l’obiettivo delle successive riforme della politica agricola comune (PAC) e dei trattati europei, che hanno distrutto i principi della stabilità di base dei prezzi intracomunitari a favore di un laissez-faire ultraliberale.

La lotta dei contadini europei mette sul tavolo della discussione sociale e politica le contraddizioni dell’ultraliberismo e del capitalismo che ha dominato il governo dell’Unione Europea degli ultimi anni e che ha generato le tensioni di questi giorni fino a farlo tremare.

Ovviamente, coloro che sono al potere e i media mainstream non vogliono aprire questo dibattito e stanno spingendo per un diversivo. Possono tollerare la ribellione, non la trasformazione sociale del modello economico.

Da riformisti coerenti ci dobbiamo attivare per mettere in evidenza queste contraddizioni che mentre colpiscono direttamente i contadini non lasciano indenni l’insieme dei lavoratori dipendenti. Sì! dobbiamo continuare ad affermare che ci sono limiti al supersfruttamento del lavoro umano e degli esseri viventi. Quindi, va contrastata la tendenza di produrre prodotti alimentari sintetici e artificiali senza passare attraverso la terra e il ciclo della natura. La robotica, la genetica, il digitale non possono essere utilizzate per eliminare il lavoro vivo, per concentrare ulteriormente le aziende agricole, a rendere più standardizzate le varietà vegetali e animali e a non tenere conto della biodiversità e della qualità dell’acqua.

Siamo concordi con Papa Francesco quando ci dice che non c’è via d’uscita positiva senza mettere radicalmente in discussione questo sistema che penalizza e sottovaluta il lavoro umano, non dà dignità ai contadini e comprime i salari, aggrava la malnutrizione e degrada la salute umana e animale, riduce la biodiversità e desertifica i territori.

La grande industria fitosanitaria o veterinaria non può essere assolta dalle proprie responsabilità per gli effetti nocivi sull’ambiente e sulla salute dei prodotti che fabbrica. Deve essere coinvolta nella ricerca di metodi di cura delle colture e degli animali che siano compatibili con il progresso ecologico.

Il rilancio dell’agricoltura contadina richiede al settore bancario di rinegoziare fino al punto di cancellare i debiti e di istituire tassi di interesse negativi rifinanziati dalla Banca Centrale Europea.

PER UNA SICUREZZA SOCIALE DELL’ALIMENTAZIONE

Vanno sostenute e promosse tutte le iniziative e le sperimentazioni attraverso diverse cooperative locali, i Comuni dovrebbero sviluppare progetti alimentari territoriali, in particolare le mense scolastiche e per la popolazione povera.

Permettere ai contadini-lavoratori di guadagnarsi da vivere con il loro lavoro, preservando l’ambiente, garantendo al contempo il diritto al cibo per tutti (attualmente ci sono nel nostro paese persone e famiglie che stanno riducendo gli acquisti alimentari per scarsità di reddito) deve essere parte di un impegno riformatore, sociale e di rilancio della democrazia, del lavoro e la sicurezza sociale dell’alimentazione può diventare una leva che permette sia l’impulso verso un’agricoltura sostenibile e gratificante, sia l’attuazione di un reale diritto al cibo in quantità e qualità.

L’attuale emersione della lotta contadina deve essere colta come l’occasione per avviare un dibattito pubblico di qualità per un grande piano agro-ecologico e alimentare, e stimolare la ricerca di un nuovo sviluppo che preservi i viventi e la terra, come patria comune .

Il sindacalismo confederale non deve sottovalutare queste questioni perché stanno dentro il grande tema del lavoro, ma per fare questo deve rilanciare un processo di democratizzazione interna che renda i lavoratori e le lavoratrici protagonisti delle scelte e della partecipazione.

Bisogna avere una maggior consapevolezza che le dinamiche sociali sono in movimento e molte sono le variabili che incidono sulla rivitalizzazione dell’esperienza sindacale:

  • i cambiamenti strutturali dell’economia accentuati dalle guerre , in particolare di quelle in Ucraina e nel Medio Oriente( la presenza della Marina Militare nel Mar Rosso è da questo punto di vista emblematica);
  • il passaggio più rapido e pervasivo di quanto previsto dal modello industriale a quello digitale (informatica, internet, Intelligenza artificiale ) ;
  • il mutarsi degli assetti istituzionali delle relazioni tra attori sociali che vede l’indebolirsi delle propensioni pro-Labro ( liberismo, conservatorismo, nazionalismo).

L’esito finale e convergente risulta essere una costante riduzione strutturale e politica del peso e dell’incidenza dell’attore sindacale, che fatica ad ottenere risultati soddisfacenti ad impatto egualitario nel conseguimento dei suoi obiettivi, soprattutto nell’ambito di quella che dovrebbe essere la sua area di interesse.

La nostra economia, al di là delle declamazioni propagandiste, non gode di grande salute e le molteplici crisi aziendali non sono sempre aggiustabili con i prepensionamenti o sussidi vari, inoltre non si può continuare a sottovalutare l’esplosione della spesa pubblica e la costante crescita del debito pubblico, che finiranno per pesare sulle future generazioni.

Il sindacalismo confederale ha oggi maggiori responsabilità rispetto al passato, per prima cosa, anche se può apparire spiacevole, deve avere la consapevolezza che sono in atto processi economici, sociali, politici e tecnologici che tendono a ridimensionare il suo ruolo, avere questa consapevolezza non vuol dire accettare una fatalistica presa d’atto, ma elaborare una molteplicità di azioni e di pensieri in termini di resistenza per limitarne le ricadute negative.

Significa uscire dalla retorica evocativa dell’unità sindacale ma avere il coraggio di avviare una fase costituente del Sindacato nuovo di cui il Paese e la nostra democrazia ha estremo bisogno anche perché il nuovo capitalismo della sorveglianza, guidato da una eccessiva, forte e pervasiva finanziarizzazione con i suoi effetti sull’impresa e il lavoro, mette i lavoratori e le lavoratrici sotto nuove forme di subordinazione.

Sono queste a parer mio le ragioni che obbligano il sindacato a ripensarsi, un’azione che può riuscire soltanto se il lavoro di rigenerazione è compiuto insieme.

Serve anche una visione mobilitante capace di vincere le paure che si sono insinuate nel corpo sociale e che sono state generate dalla Pandemia prima e accentuate dalla guerra poi. Un discorso chiaro sulla salute di tutti e sulla pace deve orientare l’insieme dell’agire unitario, europeo e internazionale.

RIFLESSIONE SUL MESSAGGIO DI PAPA FRANCESCO

LA PACE NELL’ERA DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE.

Questa mia riflessione è stata stimolata dalla lettura del Messaggio di Papa Francesco per la Giornata della pace del 2024.

I rapidi, oserei dire tumultuosi, veloci e rapidi avanzamenti della scienza e della tecnologia suscitano in me atteggiamenti e pensieri contradditori, da un lato ne sono affascinato e coinvolto, dall’altro preoccupato dalla loro capacità pervasiva. Come tutti, mi trovo collocato in una atmosfera che mi inquieta e che è segnata e caratterizzata rispetto al recente passato dalla velocità, dalla rapidità che sottrae tempo alla riflessione e all’esame critico dei pro e contro le innovazioni tecnologiche nel loro apparire prima che diventino-nel bene o nel male – di uso comune. E questo vale oggi per il rapido sviluppo dell’Intelligenza artificiale (AI).

Oltre alle incidenze che le nuove tecnologie digitali e cibernetiche hanno sulla nostra vita è anche arrivato il tempo il tempo in cui dobbiamo fare i conti che il fenomeno dell’accelerazione delle dinamiche sociali e valutarne sue ricadute culturali e strutturali sugli stili di vita individuali e collettivi. L’accelerazione sociale e tecnologica che abbiamo vissuto ci ha fornito un effetto inizialmente liberatorio e potenziante, che è connesso con l’aumento tecnico della velocità dei trasporti, delle comunicazioni o della produzione, ma sempre più minaccia di trasformarsi nel suo opposto. Ho l’impressione che sul piano individuale e sociale stiamo sperimentando una nuova visione del tempo e della storia, invece di un movimento diretto in avanti, c’è il formarsi di una spirale di accrescimento, per così dire, immobile e congelata in sé stessa.

Di fronte alle “identità socialmente accelerate”, diventa diventa difficile parlare di progetti di vita in senso convenzionale: non si “è” più operai, ma si “lavora” come operaio, l’accelerazione del tempo non lascia spazio alle relazioni, ai contatti personali, alla cura dei bisogni altrui e non a caso la frase che più si sente ripetere è “non ho tempo”. La guerra è collocata dentro questa dinamica e a differenza della diplomazia che esige tempo essa punta a fare in fretta incurante delle distruzioni, delle vite, delle città, deve fare in fretta.  

Dobbiamo essere molto grati a Papa Francesco per aver prodotto un vivace e stimolante intervento che lega le problematiche che solleva il tema dell’Intelligenza Artificiale a quello della pace. Il Papa ha scritto il suo messaggio per la giornata mondiale della Pace del 1° gennaio 2024 affrontando questo tema “Intelligenza Artificiale e Pace”. È mia convinzione che con questo documento si sia voluto andare oltre il tema dell’Ai per affrontare il rapporto tra dimensione etica, tecnologie, libertà della persona e pace.

Quando al mattino ci alziamo dal letto e ci mettiamo alla lettura dei quotidiani e avviamo il nostro vagabondaggio nella rete, non possiamo non interrogarci su quale possa essere le sviluppo delle guerre in corso che, purtroppo, non sono poche e sono presenti in tutti i territori del mondo.

Siamo innanzi ancora una volta a una globalizzazione del ricorso alla guerra che sta minacciando il nostro stile di vita privilegiato, e che molto spesso lo fanno con prepotenza, violenza e crudeltà inaspettata. Oltre alla guerra in Ucraina che interroga e inquieta noi europei perché si gioca nei nostri confini, vediamo l’incrudirsi della guerra a Gaza che nata da un atto di efferata crudeltà sta ormai superando ogni limite di sopportazione che stravolge ogni concetto di legittima difesa. Nello stesso tempo la guerra infuria nello Yemen. Sono queste le azioni belliche tra le più recenti che stanno provocando tragedie umane che reputavamo inimmaginabili e che stanno modificando in tutto il mondo le condizioni di vita incrinando quello che ritenevamo un benessere progressivo e che scaricheranno sui ceti sociali più poveri i costi di conflitti che non solo non hanno voluto ma forse nemmeno pensato fossero possibili.

In queste ultime settimane assistiamo a prendere forma di un ulteriore conflitto. Da novembre gli Houthi, un gruppo terrorista sciita affiliato e finanziario dall’Iran con base nello Yemen, ha iniziato a lanciare attacchi nel mar Rosso da dove transita il 30 per cento del traffico commerciale mondiale. Per debellarli gli Stati Uniti hanno creato una coalizione di forze, di cui fa parte il Regno Unito e anche l’Italia; gli Houthi, però, almeno per ora, continuano a terrorizzare il transito da e verso il canale di Suez, obbligando molte compagnie marittime alla circumnavigazione dell’Africa, il che significa costi logistici aggiuntivi e spesso significativi per i prodotti che transitano da e verso l’Europa ed il Nord America. Gli Houthi non attaccano le petroliere provenienti dal golfo Persico – per non attirare le ire dei produttori arabi – ma solo navi e prodotti che hanno a che fare con Israele, ciononostante la tensione nel mar Rosso sta facendo gravitare i costi delle assicurazioni marittime, aumenti che impattano sui costi finali di trasporto e certamente incrementeranno il costo del vivere, soprattutto dei più poveri.

Inoltre, non possiamo ignorare e sottovalutare che la Cina continua a minacciare di fare come la Russia in Ucraina di attivare una invasione per assorbire Taiwan, evento che, se si realizzasse potrebbe scatenare la terza guerra mondiale. Innescando incommensurabili tragedie umane e mandare in fumo oltre diecimila miliardi di dollari. Una cifra che supera di gran lungo le cifre delle guerre in corso come quella Ucraina e i costi sostenuti per far fronte alla crisi economica del 2008 e quelli della pandemia covid 19.

La situazione è molto pericolosa e richiederebbe una grande iniziativa internazionale di prevenzione diplomatica sotto la guida dell’ONU.

Resta in questa realtà assume un grande significato la presenza dei movimenti pacifisti che a mio parere dovrebbero puntare a realizzare una forte mobilitazione pacifista a livello globale e a cercare di orientare l’opinione pubblica contro la guerra.

Ecco perché ritengo che l’iniziativa di Papa Francesco sia importante.

Essendo il Pontefice l’unico leader mondiale che si sta spendendo in questa direzione, ma il Papa da solo non può destrutturare i poteri che dalla guerra traggono profitti economici, politici, militari.

Serve che l’insieme dei cristiani e degli uomini di buona volontà entri in campo e non resti fermo ai margini esprimendo solo compassione. Se si decidesse di orientare le omelie domenicali come già stanno facendo diversi sacerdoti, si potrebbe orientare la massa dei cristiani e l’opinione pubblica in direzione della pace.

Perché ritengo importante il messaggio del Papa? perché indica un orientamento morale su come le innovazioni che l’intelligenza umana elabora siano messe al servizio della pace e della fraternità.

 A proposito dell’Intelligenza Artificiale (AI)non possiamo – scrive il Francesco- presumere a priori (da ragionamenti logici nasati su verità autoevidenti) che il suo sviluppo darà un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli.

A leggerlo con molta attenzione il messaggio non riguarda solo la questione dell’AI ma dell’uso delle nuove tecnologie e pone due domande: “I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?” … “La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso [8].

L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche.

Nel messaggio è richiamata con estrema chiarezza la dimensione etica dell’uso delle nuove tecnologie.

Quando i criteri etici non presiedono le scelte e l’uso delle tecniche, del lavoro dignitoso ma tutto viene governato dalla ricerca del puro guadagno economico, dall’interesse personale e dal proprio potere, si mette in discussione la verità.  I droni sono un eccezionale strumento, ma se servono per incrudire la guerra perdono il loro valore morale positivo, lo stesso vale per l’Intelligenza Artificiale.

C’ è un invito ad assumere Il senso del limite e un invito a riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il “senso del limite”. L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su sé stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire o, meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece, nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica”

LA DOMANDA DI FONDO È: TRASFORMEREMO LE SPADE IN VOMERI?

“In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti “sistemi d’arma autonomi letali”, incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto “intelligente”, rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo, è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.

Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo, non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo, correrà il rischio di diventare sempre più “artificiale”. Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.

Chiudo questa mie riflessioni invitando alla lettura del messaggio, ma anche per ribadire che volere la pace non è una utopia ma un bisogno umano e che diventa un impegno resistere alla logica e all’istaurazione o rafforzamento del sistema di guerra o giustificare il ricorso alla all’azione bellica con la banalità della frase: “la guerra c’è sempre stata” come a dire che non potrà essere ripudiata dalla nostra Realtà:

Domenica mattina sono stato a Bozzolo a un convegno convocato per ripercorre l’insegnamento di don Milani e don Mazzolari dove il succo delle relazioni era quello di avere presente il Vangelo e la Costituzione della Repubblica.

Oggi la pace ha urgente bisogno di alleati. Non bisogno chiuderci nelle nostre vecchie convinzioni ma assumerne e elaborarne di nuove e guardare con simpatia l’avanzare della scienza, delle tecnologie e all’uso dell’intelligenza artificiale.

Papa Francesco ci ha offerto i criteri con cui dobbiamo analizzare come e dove viene attualmente applicata e quali sono i potenziali impatti futuri dell’IA per porre fine alla guerra e creare una pace duratura. Come costruttori di pace dobbiamo vedere l’IA come una promessa, ma essere anche consapevoli per prevenirli dei suoi numerosi pericoli. Personalmente sono convinto che le macchine autonome con il potere e la discrezionalità di selezionare gli obiettivi e le forme del lavoro e intromettersi nella vita delle persone, e gestire comunicazione e informazioni senza una visione etica e il coinvolgimento umano sono politicamente inaccettabili e moralmente ripugnanti e dovrebbero essere vietate dal diritto internazionale.

Essendo coscienti che i prossimi anni saranno immensamente influenzati dallo sviluppo e dall’implementazione dell’IA e di molte altre tecnologie, come pacifisti e sindacalisti dobbiamo agire per rendere questo impatto pacifico e innovativo, benefico per tutta l’umanità e liberante dalla fatica e dalla sofferenza che ancora attraversa il lavoro.

Il nostro imperativo è oggi fare ogni sforzo per fare in modo che le nuove tecnologie e la stessa Intelligenza Artificiale siano utilizzate solo per la cura delle persone, per il lavoro e per tutto ciò che è bene e per la pace, e questo e deve essere il risultato a cui miriamo.

E DOVE SI DEVE ANDARE

La situazione che emerge da uno studio pubblicato da CISL Bergamo sulle dichiarazioni dei redditi 2022 e pubblicata da @ecodibergamo rivela che il 5,56% dei contribuenti bergamaschi ha dichiarato più di 55mila euro annui, ovvero 24,05% (un quarto) di tutti i redditi dichiarati in Bergamasca, nella cui fascia la piramide si assottiglia sempre più al crescere ulteriore del reddito, con una divaricazione che aumenta anche all’interno dei redditi sopra i 55mila euro.

Allo stesso tempo aumenta la povertà e il ceto medio arranca, mentre i guadagni delle fasce più alte sono cresciuti del 10% nell’ultimo decennio.

Ogni giorno che passa si rende evidente la necessità di una nuova politica economica che consenta di aumentare i salari reali degli italiani; nello stesso tempo ritengo necessario che si dia corpo all’introduzione del salario minimo (che per ora Meloni ha bocciato) Nel frattempo credo che il sindacato debba battersi per il rinnovo dei contratti e per  rafforzare ed estendere la contrattazione collettiva e quella decentrata.

Inoltre credo che diventi sempre più urgente espandere le politiche fiscali a favore delle famiglie,delle situazioni di fragilità e per arrestare il declino demografico che sta impoverendo la società , il paese e il lavoro anche attraverso un miglioramento della sanità la realizzazione di asili nido , l’avvio di una politica per la casa rivolta in particolare alle giovani copie e agli anziani e un migliore accesso ai servizi sociali nel territorio provinciale e comunale.

Il sottoscritto non può non rilevare che l’attuale governo nazionale a guida Giorgia Meloni non sia andato nella direzione che i bisogni sociali richiedono: bocciato il salario minimo, interventi restrittivi  verso gli scioperi, si tagliano le tasse ai redditi più alti e si tolgono i soldi ai Comuni che faticano a mantenete i servizi sociali esistenti per la popolazione.

Nella Conferenza Stampa di inizio anno il Presidente del Consiglio tra le diverse cose su cui ha tacito ci metto il tema della povertà e della disuguaglianza che stanno crescendo. Ma non sono dimenticanze ma l’evidenziazione di un chiaro disegno politico.

Sicuramente abbiamo un debito pubblico che frena gli investimenti a cui bisogna trovare rimedio senza aggravare le situazione di debolezza sociale e di fragilità personale, ma dobbiamo aggiungere che se non è possibile cercare di intervenire sul debito pubblico intaccando il sistema di protezione e promozione sociale non lo si può certamente fare una nuova ondata  di  privatizzazioni che già nel passato hanno creato un indebolimento irreversibile dei nostri asset strategici come : il settore delle telecomunicazioni all’agroalimentare. Se l’idea è svendere ulteriori quote di Poste o di altre aziende pubbliche si indebolirà l’insieme del settore industriale in maniera complessiva.

Mi rendo conto che delineare dove deve passare la linea di demarcazione fra Stato e mercato non è facile e tanto meno decidere  quanto estesa debba essere l’area riservata allo Stato anche perché negli ultimi vent’anni ci si è affannati a demolire l’intervento pubblico in economia bollandolo di statalismo. Per cui dal punto di vista dell’elaborazione teorico-culturale-sociale non esistono facili ricette di intervento. Esistono però esperienze pratiche cui riferirci. Come ha recentemente rilevato sul Corriere della sera Francesco Giavazzi un modello è quello che si attua nei Paesi Nordici  dove l’offerta di servizi riservati allo Stato è molto ampia, ma questa non si estende al di là di alcuni settori ben definiti. In questi Paesi lo Stato gestisce in prima persona robuste reti di protezione sociale e da decenni offre qualche forma di reddito minimo. Questi interventi sono disegnati in modo tale da non influire negativamente sugli incentivi a lavorare. In Svezia, ad esempio, la partecipazione al lavoro, cioè la somma di chi lavora e chi sta attivamente cercando un lavoro, supera l’89 per cento, in Danimarca l’85. In Italia quella percentuale si ferma al 72,8. E ciò nonostante la spesa sociale raggiunga in Danimarca i 18 mila euro pro capite l’anno, 15 mila in Svezia, contro meno di 10 mila euro in Italia. Certamente si è molto distanti della proposta di privatizzazione che viene avanzata in Argentina.

Personalmente credo che oggi a fronte delle difficolta cui va incontro la nostra economia vi è la necessità di un ruolo dello Stato e credo che l’orientamento più razionale e socialmente sostenibile è quello che viene proposto dall’economista  italo-inglese Mariana Mazzucato. La quale, in diversi libri , lezioni, interventi conferenze, propone che per affrontare le questioni dell’economia occorra rilanciare  l’orientamento mission-oriented dell’investimento pubblico, che ha avuto numerosi successi nel secondo dopoguerra.

Nel farlo occorre tuttavia capitalizzare anche sui fallimenti e dedicare una attenzione maggiore al problema della implementazione delle politiche. Se c’è un risultato robusto negli studi che si occupano di politiche della innovazione è che il loro successo dipende in modo cruciale dalla implementazione, ovvero dai dettagli istituzionali e organizzativi con i quali esse vengono attivate.

Non si tratta quindi di aspetti secondari ma centrali.

La necessità che lo Stato si faccia promotore intervenendo con politiche pubbliche di orientamento significa recuperare un  suo ruolo che non è di sostituirsi all’impresa privata nel produrre la salsa di pomodori ma di agire dove l’interesse comune chiede investimenti, innovazione e salvaguardia di settori importanti per l’intera economia, come  e il caso dell’Ilva di Taranto .

Questa è la posizione che viene sostenuta  sul piano scientifico con diversi argomenti  da economisti di fama mondiale come  Jaffe ,Acemoglu, Aghion e Roulet e Foray .

Per chiudere questi appunti sottolineo che avendo   letto su AVVENIRE l’intervista del Segretario Generale del sindacato cui sono iscritto in cui  dice di essere contrario a una “stagione  ad una stagione di saldi di Stato, che negli anni Novanta ha già creato danni irreversibili ai nostri asset strategici. Penso al settore delle telecomunicazioni o all’agroalimentare. Se l’idea è svendere ulteriori quote di Poste o di altre aziende pubbliche, la Cisl si opporrà” Una dichiarazione che condivido spero solo che sia accompagnata da una grande iniziativa unitaria di tutto il sindacato e retta da una forte mobilitazione.

RICORDANDO DELORS

RICORDANDO JACQUES DELORS

Seguendo il pensiero di  Jérôme Vignon, presidente delle settimane sociali di Francia sono parimenti convinto che Jacques Delors ci ha indicato un modo di fare politica basato sulla semplicità di cuore, giustizia per i poveri, preoccupazione per la verità,  la leggibilità e la trasparenza dell’azione pubblica.

Jacques Delors: I frutti del personalismo cristiano

Jacques Delors, a sinistra, tra la folla che partecipa alla Giornata mondiale per l’eliminazione della povertà estrema 17/10/1993

Si è chiuso il 2023 che non è certamente da annoverare tra gli anni gloriosi avendo riproposto questioni angoscianti come la guerra in Europa (Ucraina) e sulle sponde del Mediterraneo ( Israele /Palestina)  e in molte altre parti del mondo .

Non voglio fare dell’AMARCORD, ma la morte di Jacques Delors ha riportato alla mia mente gli anni politici tra il 1985 e il 1995 che sono stati segnati da questa figura che giustamente viene considerata come l’artefice di ciò che ancora plasma oggi l’Unione Europea che non saranno i populismi e le destre a soffocare

Tocca ad ognuno di noi operare perché l’ideale europeista non si frantumi sulle secche degli egoismi nazionalisti o sotto il peso di visioni belliciste . Lo  “spazio economico, sociale e ambientale europeo senza frontiere” deve essere rafforzato da una nuova visione politica e dalla  messa in sicurezza del bilancio europeo che consenta il dispiegamento di nuove forme di solidarietà tra regioni povere e ricche.

Il “ Momento Delors “ resta nella memoria di ogni europeista come una tappa importante nel cammino verso l’unità dei popoli d’Europa. Tutto dimostra ormai che questa fase è solo all’inizio e che gli avvenimenti mondiali spingono verso ulteriori progressi, le cui difficoltà sono ben note. Di fronte a queste difficoltà, l’eredità di Jacques Delors offre almeno due lezioni:

  • La prima riguarda il quadro politico della marcia verso una “sempre più stretta unione tra i popoli”. Il «metodo Delors» richiede qui di preferire il cosiddetto quadro decisionale comunitario, garantendo in tal modo la capacità di agire nelle aree di “sovranità condivisa”. 
  • La seconda lezione riguarda proprio la visione dell’unità, quella che Jacques Delors chiamava talvolta l’anima dell’Europa. Il desiderio di condividere un destino comune non può nascere solo dalla necessità o dall’interesse nazionale . Esso si nutre di una sorta  sentimento che si ispira a  una forma di civiltà che non  intende imporsi al mondo, ma piuttosto di indirizzarla per poter contribuire alla pace nel mondo e all salvagurdia del pianeta terra .

Mettere “in moto la società

Un nuovo impegno europeista richiede sicuramente la messa in moto della società e una politica che nel richiedere rigore non neghi il dinamismo, la costante innovazione e la mobilitazione della soggettività politica delle parti sociali. Elementi che in Delors nascevano da una adesione laica e solida alla fede cristiana e alla disciplina acquisita nella militanza sindacale e nella visione antropologica propria del personalismo.

Non voglio oggi cercare di recuperare la figura di Delors perché era cristiano , lungi da me ogni tentazione integralista innanzi a chi ci ha insegnato ad essere discreti nei confronti della fede cristiana e non per timidezza , ma per rispetto di una  società diventata pluralista e multiforme. Quello che dobbiamo trattenere della sua vita è la sua semplicità di cuore , la giustizia per i poveri , la preoccupazione per la verità, la trasparenza, la leggibilità , l’onesta dell’agire politico e sociale e l’amore per l’ideale dell’unità europea come fondamento e contributo per un mondo di pace.