Signor ministro, lei non vede la crisi sociale
I dati sulla povertà, le dichiarazioni del Governatore della Banca d’Italia e la manovra economica approdata in Parlamento m’inducono a qualche riflessione.
Volendo sdoganare il “rapporto annuale dell’Istat sulla povertà in Italia”, potremmo scrivere: “oltre due milioni di famiglie povere, peggiorano le condizioni degli operai e dei giovani”.
I numeri sembrano non dirci che il numero dei poveri nel 2009 non è aumentato. Verrebbe quasi da rallegrarsi! Ma se siamo attenti, vediamo che le cose non sono esattamente così. I dati Istat ci mostrano che quelli che stanno meno peggio e che escono dalla categorie di povero relativo si trovano nella condizione reddituale di un anno fa. Utilizzando i criteri di valutazione praticati dalle banche e dal credito al consumo – come suggerisce di fare la Fondazione Zancan che ogni anno con la Caritas Italiana redige l’importante “Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale” – i poveri sarebbero circa 800.000 in più.
Il dato più rilevante del rapporto Istat è quello che evidenzia che il calo dell’occupazione ha colpito per l’80% i giovani, in particolare quelli che vivo nella famiglia di origine. Peggiorano le condizioni delle famiglie povere al sud mentre cresce la povertà assoluta delle famiglie operaie.
Mettendo in relazione i dati sulla povertà – e di come questa colpisce i giovani, le famiglie del sud e quelle operaie – emerge con chiarezza come al centro di tutto ci sia la questione della carenza di lavoro e della disoccupazione. Gli effetti di questa situazione non sono ancora drammatici perché sono stati attenuati da due ammortizzatori sociali: la cassa integrazione guadagni e la famiglia, anche se quest’ultima deve fare i conti con la diminuzione del reddito e l’indebitamento. Ormai due famiglie su cinque sono costrette a contenere la spesa alimentare, a comprare le “promozioni” o i saldi e a modificare stanzialmente il tenore di vita, le cene fuori casa e i periodi feriali. Se pensiamo a quante lavoratrici e lavoratori sono in cassa integrazione speciale o in deroga o in mobilità, e se a questi aggiungiamo i piccoli imprenditori e il lavoro autonomo in difficoltà, ci si rende conto che la crisi economica è ben lontana dall’essere in via d’uscita, ma che ora sta dispiegando i suoi effetti sulle condizioni di lavoro e di vita delle persone.
Il rischio che si avverte, che dopo la crisi finanziaria, quella dell’economia reale, è che si stia entrando in una crisi sociale di notevole portata.
Inoltre la crisi economico-occupazionale sta accentuando le distanze sociali e amplia le disuguaglianze. La società italiana sta diventando sempre più diseguale, dove i poveri impoveriscono e i ricci arricchiscono. Dopo che si era fatto l’elogio di Robin Hood che toglieva a ricchi per donare ai poveri, ci troviamo in una situazione esattamente contraria. Recenti indagini effettuate utilizzando coefficiente Gim (coefficiente che prende il nome dall’economista-statistico italiano che l’ha definito e che misura il tasso di disuguaglianza nella distribuzione del reddito) ci dicono che la situazione sta peggiorando.
In questi anni abbiamo sentito e letto molte critiche e osservazioni sulla scarsa mobilità sociale e premialità del merito. Tutte ragioni condivisibili, ma mi domando: se la ricchezza si contrae, si distribuisce in modo ineguale e tende a concentrarsi nei portafogli di pochi, con cosa si può generare mobilità verticale e remunerazione del merito? Questa non è una domanda retorica, ma voler porre due questioni di fondo: il tema dell’uguaglianza e quello della crescita. Può a prima vista apparire paradossale cercare di collegare queste due questioni, mentre appare sempre più chiaro che il loro collegamento è indispensabile.
Esiste oggi in Italia una forte disparità di redditi che preoccupa e che può essere foriera di grandi tensioni sociali. La disuguaglianza palese e magari ostentata mette in movimento un’esigenza di giustizia che può essere accompagnata dal formarsi di sentimenti negativi come l’invidia, il rancore e il risentimento. Non è un caso che le nostre società siano attraversate da diverse forme di rancorosità sociale e personale, e che questo sentire vada pari passo con il crescere delle disuguaglianze (su questi temi andrebbero riprese a approfondite le analisi di René Girare sul risentimento e quelle di Aldo Bonomi sul rancore). Se a tutto questo si aggiunge quanto stiamo vedendo e leggendo in merito alla “cricche ridenti”, alle P3 e all’intreccio tra affari personali e politica, le tensioni non possono che aumentare e la rancorosità tenderà sempre più a sfociare in forme diffuse di conflitto o di menefreghismo civico.
Si è molto discusso se esistesse una correlazione tra la crisi attuale e quella del ’29; ci hanno spiegato che erano e sono due cose diversissime; eppure c’è un tratto che le unifica ed è quello della crescita delle disuguaglianze reddituali e sociali.
Non ho mai fatto il tifo per le società egualitarie e il socialismo mi è sempre apparso come una proposta strana. Fatta questa considerazione, mi chiedo inoltre se una società democratica può restare ed essere tale se non affronta con rigore il tema dell’uguaglianza e delle pari opportunità, se non si dà strumenti e politiche che rimodulino e ricalibrino costantemente questo problema. Non si può entrare nell’Agorà se le disuguaglianze sono troppo forti, perché alla fine qualcuno deciderà di ritirarsi sul monte Mario e rompere la coesione sociale e politica. E siccome non vedo tra noi nessun Menemio Agrippa, i rischi possono farsi forti.
Vittorio Valletta, mitico presidente della Fiat, nel 1966 guadagnava 60 volte più dei sui operai, oggi l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne, uomo di qualità, guadagna 435 volte di più dei suoi operai. Questo è solo un piccolo esempio di come le cose sono cambiate.
Quando la ricchezza si concentra troppo e su pochi è causa di tensioni sociali, ma finisce sempre per produrre effetti negativi sull’economia: riduce la domanda, accentua la corsa verso investimenti finanziari, riduce la propensione al rischio e accentua la voglia di accumulare in fretta.
La questione fondamentale che questi problemi ci pongono è quello della ripresa. In questi mesi si è molto parlato di un ritorno a Keynes e all’economia sociale di mercato e credo sia opportuno andare in questa direzione; ma credo che andrebbe anche recuperata la lezione schumpeteriana secondo la quale le crisi comunque producono processi d’innovazione che devono essere colti e sviluppati. Queste riflessioni ci introducono nelle problematiche della manovra economica del Governo.
L’ineluttabilità della manovra non è in discussione, ma le modalità con cui viene attuata ci sembrano inadeguate alla situazione e alle esigenze di uno stretto raccordo tra risanamento e politiche per la crescita. Ho la metta impressione che si sia scelto di seguire i canoni dell’economia neoclassica il cui obiettivo è raggiungere un determinato equilibrio e una volta raggiunto lasciare che agiscano gli eventi endogeni. Questo significa che la manovra non produrrà momenti di crescita, ma semmai una stasi che potrebbe sfociare in recessione. Questa impostazione è evidenziata in modo eclatante dai cosiddetti tagli lineari e dalla carenza di riforme strutturali. I tagli alla Regioni, province e comuni bloccheranno le possibilità d’innovazione territoriale e limiteranno l’erogazione di servizi pubblici accentando gli elementi di disuguaglianza, di restrizione di servizi come quello dei trasporti accentando le difficoltà dei territori periferici e marginali, che senso ha andare da Milano a Roma in tre ore se poi per andare a Sondrio ci impiego il doppio. È chiaro che il non ammodernamento dei servizi di trasporto regionale penalizzerà i lavoratori pendolari, ma anche la piccola e media impresa.
Una manovra che rivede il tema del sostegno ai disabili, ai non autosufficienti che non mette risorse sulle politiche famigliari, finisce per consolidare e produrre disuguaglianze. Nel frattempo si bonifica gli agricoltori che non hanno rispettato le regole sulle quote latte.
Cosa possiamo dire sul Mezzogiorno che è il grande assente dopo che si sono depredati i fondi per le aree sottosviluppate (FAS)? manca su questa questione nazionale la dovuta attenzione e non la si affronta evocando il ponte sullo stretto.
Mentre plaudo alle brillanti operazioni della polizia su mafia e n’ndrangheta in Lombardia, non posso non sottolineare la contraddizione della riduzione delle risorse alla sicurezza , il blocco dei contratti e il rinvio del riordino delle carriere. Inoltre voglio rilevare che mentre Paesi come la Germania e l’Inghilterra puntano a una riduzione delle spese militari, l’Italia si appresta all’acquisto di costosissimi caccia bombardieri.
Siamo di fronte a una manovra necessaria ma inadeguata rispetto alle sfide che l’economia mondiale pone al nostro Paese, alle tensioni sociali e al crescere delle disparità tra i cittadini. Sono convinto che servisse più rigore, più equità e uno sguardo più acuto verso il futuro.
di Savino Pezzotta (pubblicato su “Liberal” il 17 Luglio 2010)
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